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Visuale della mostra «Colonialismo – intrecci globali della Svizzera»

Colonialismo – Intrecci globali della Svizzera

Sin dal XVI secolo, la società svizzera è sempre più interconnessa a livello globale. In undici capitoli, la mostra si è soffermata sui campi di attività legati al colonialismo che hanno visto il coinvolgimento di svizzere e svizzeri e spaziano dalla partecipazione alla tratta delle persone ridotte in schiavitù allo sfruttamento di esseri umani e di risorse naturali giustificato dalla ricerca scientifica dell’epoca, passando per il servizio mercenario nelle colonie.

Lungo il percorso espositivo sono state presentate non solo personalità e istituzioni provenienti dal territorio dell’attuale Svizzera, ma anche persone ridotte in schiavitù e vittime del colonialismo che a questo hanno opposto resistenza, benché oggi molte tracce siano andate quasi perse.

L’eredità del colonialismo europeo continua a plasmare il mondo di oggi. Nella parte finale della mostra il pubblico era invitato a confrontarsi con dibattiti d’attualità.

Troverete qui una selezione di contenuti tratti dalla mostra presentata al Museo nazionale a Zurigo dal 13 settembre 2024 al 19 gennaio 2025. La mostra verrà esposta in forma adattata al Castello di Prangins dal 27 marzo all’11 ottobre 2026.

«Il ruolo del nostro Paese, multiforme ma difficile da definire, ci pone di fronte a una decisione. Vogliamo eludere il tema per la sua estrema complessità o apparente impenetrabilità? O preferiamo dedicargli un’attenzione particolare, poiché solo così possiamo comprenderne la portata reale e il modo in cui l’eredità coloniale plasma il nostro presente?»

Consigliera federale Elisabeth Baume-Schneider, inaugurazione a Zurigo, 12.09.2024

La consigliera federale Elisabeth Baume-Schneider e Henri-Michel Yéré, poeta, storico e ricercatore all’Università di Basilea, sono intervenuti in occasione dell’inaugurazione della mostra.

Contenuti

Asservimento

Per la coltivazione delle piantagioni nei Caraibi e nell’America del Nord e del Sud, tra il XVI e il XIX secolo i mercanti europei hanno deportato più di 12 milioni di persone dall’Africa alle colonie. Ciò è stato possibile anche perché esisteva già un commercio di schiavi interno all’Africa.

Oltre 250 imprese e privati svizzeri sono coinvolti nel commercio e nella deportazione di circa 172'000 persone. Questa forma di sfruttamento si fonda sulla disumanizzazione delle persone ridotte in schiavitù. La tratta transatlantica ha creato le condizioni affinché il razzismo si sviluppasse a partire dal XVI secolo.

© Museo nazionale svizzero

Ricchezza ottenuta attraverso lo sfruttamento
La tratta atlantica raggiunge il suo apice nel XVIII secolo. Anche città come Berna e Zurigo investono nel commercio di schiavi: entrambe sono azioniste della South Sea Company britannica, che deporta oltre 38’000 persone ridotte in schiavitù.

Stock, azione della South Sea Company, Londra, 1729 | Sammlung des Schweizer Finanzmuseum, Zürich

Fabbricante, commerciante, investitore
L’azienda Christoph Burckhardt & Cie produce indiane a Basilea e commercia in beni coloniali. La famiglia Burckhardt partecipa a 21 traversate durante le quali vengono deportate 7’350 persone ridotte in schiavitù.

Estratto conto relativo alla nave per la tratta degli schiavi Le Cultivateur, Ch. Burckhardt & Cie, Basilea, 1815–1817 | Schweizerisches Wirtschaftsarchiv, Basel

L’elenco di esseri umani accanto a beni commerciali di vario genere mostra che le persone ridotte in schiavitù erano considerate alla stregua di merci. La schiavitù non è un’invenzione del colonialismo europeo, ma la tratta atlantica degli schiavi rappresenta una nuova dimensione di capitalizzazione dei corpi umani. Le persone ridotte in schiavitù sono svilite e ridotte a carichi di merce e deportate nelle colonie con violenza mostruosa.

Indiane | © Museo nazionale svizzero

Indiane
Le tele di cotone stampate sono una moneta importante di scambio usata per ottenere persone ridotte in schiavitù. Questo frammento è probabilmente l’unico tessuto conservato a essere stato prodotto espressamente per essere scambiato con persone ridotte in schiavitù.

Le lion et la chèvre, Manufacture Petitpierre & Cie, Nantes, 1790 circa, stampa con blocchi di legno su cotone | Museo nazionale svizzero

Il possesso di persone ridotte in schiavitù

A partire dal XVII secolo privati svizzeri possiedono piantagioni, ad esempio nei Caraibi e in Brasile, che gestiscono impiegando persone ridotte in schiavitù. Lo sfruttamento di donne, bambini e uomini ridotti in schiavitù consente loro di arricchirsi notevolmente.

Anche imprenditori e mercenari svizzeri possiedono persone ridotte in schiavitù nelle colonie europee. In Asia, ad esempio, i mercenari vivono spesso con donne ridotte in schiavitù. È noto che alcuni di loro hanno portato con sé in Svizzera persone ridotte in schiavitù.

E oggi?

Da anni vengono avanzate richieste di riparazione dei danni causati dal crimine della schiavitù. Non è ancora chiaro se e chi debba pagare e chi ricevere gli indennizzi. Lo storico Hans Fässler mette le cose in prospettiva.

In Brasile, il nome Helvécia testimonia il passato svizzero di questo luogo. La memoria della schiavitù persiste nelle e nei discendenti. Le opere del fotografo svizzero-brasiliano Dom Smaz e i pannelli di tessuto ricamati dall’artista svizzera Denise Bertschi ricordano questo passato.

Discendenti della schiavitù
Quando la schiavitù viene abolita in Brasile nel 1888, circa 2’000 persone ridotte in schiavitù conquistano la libertà a Helvécia, l’ex colonia elveticotedesca di Leopoldina: è così anche per il nonno di Dona Cocota.

Dom Smaz, Dona Cocota, Helvécia, Brasile, 2015Museo nazionale svizzero

Tracce di famiglie svizzere
A Helvécia, l’ex colonia elvetico-tedesca di Leopoldina, vive non solo la discendenza delle persone ridotte in schavitù, ma anche quella della famiglia svizzera Sulz.

Dom Smaz, Carlos Henrique Cerqueira (nipote di Henrique Sulz), Helvécia, Brasile, 2017 | Museo nazionale svizzero

Il commercio

A partire dal XVI secolo gli svizzeri commerciano in cosiddetti prodotti coloniali: seta, spezie, tabacco o tè provenienti da oltreoceano. In seguito, sono soprattutto i tessili a diventare la principale moneta di scambio nel commercio triangolare transatlantico – un’attività assai lucrativa per le case di commercio.

Dalla metà del XIX secolo l’Africa e il Sud-est asiatico sono i mercati di sbocco per i prodotti industriali europei, mentre l’Europa importa materie prime per stimolare la propria produzione industriale. In Svizzera, un Paese povero di materie prime, alcune case di commercio sfruttano questa situazione per entrare nell’olimpo dei maggiori commercianti di materie prime del mondo.

Cacao
La pianta del cacao cresce soltanto nelle zone tropicali. Nel XVIII secolo il cacao è una delle materie prime più importanti raccolte dalle persone ridotte in schiavitù. Viene venduto sul mercato mondiale anche da compagnie commerciali svizzere. 

Il cacao arriva in Africa dal Sud America soltanto nel XIX secolo. La marcia trionfale del cioccolato svizzero non sarebbe possibile senza il cacao proveniente dalle colonie e il legame tra l’industria cioccolatiera e l’economia lattiera in piena crescita.

Frutto di cacao, cacahuatl (Nahuatl, lingua degli Aztechi), Ghana, 2024

Essiccatoio per il cacao ad Accra
Fondata nel 1859, la basilese Missions-Handlungs-Gesellschaft nasce dalla Missione di Basilea. La società è attiva nel commercio del cacao e coltiva piante di cacao. A partire dal 1921 la Union Trading Company è una delle maggiori società commerciali della Svizzera.

Accra, essiccatoio per il cacao, 1904/1905 circa | Mission 21, Bestand der Basler Mission 

La Missions-Handlungs-Gesellschaft è membro del cartello delle società commerciali europee e può quindi fare pressione sui prezzi di produzione e ostacolare le imprese africane concorrenti presenti sul mercato. Nella foto: manodopera locale e il sorvegliante vestito di «bianco coloniale» – la disparità di potere è chiaramente espressa.

Il commercio di transito

Le società di transito commerciano materie prime senza che la merce entri nel Paese in cui hanno la loro sede. Grazie al libero accesso ai mercati e a un’elevata capitalizzazione, società come la basilese Missions-Handlungs-Gesellschaft o la Volkart & Cie realizzano importanti guadagni e traggono vantaggio dal fatto che le colonie sono orientate alla produzione di materie prime.

A partire dal 1880 il calo dei prezzi dei trasporti e le nuove tecnologie di comunicazione portano a un enorme incremento delle attività commerciali; la Svizzera diventa uno degli snodi principali del commercio di materie prime.

Perché la Svizzera – un Paese senza materie prime proprie e con una topografia sfavorevole – è così ricca?
Allo stadio attuale della ricerca, è difficile rispondere alla domanda se la Svizzera (come Stato) si sia arricchita anche grazie ai suoi intrecci coloniali. Mentre singole imprese e famiglie hanno indubbiamente beneficiato del colonialismo, intorno al 1900 la maggior parte della popolazione conduceva ancora un’esistenza di indigenza e svantaggi.

Miti e fatti: l’origine della ricchezza svizzera, dibattito con Markus Somm, giornalista e storico, e Hans Fässler, storico, Echo der Zeit, 21 dicembre 2021

E oggi?

In Svizzera, nel 2021, sono registrate circa 960 imprese attive nel commercio di materie prime che gestiscono circa un quarto delle transazioni relative a questa attività.

I profitti continuano a confluire nel Nord globale, mentre i Paesi del Sud globale, da cui provengono le materie prime, sopportano il pesante fardello dei danni ambientali o sono esposti a condizioni lavorative disumane. Le popolazioni non beneficiano quasi mai della ricchezza di materie prime del proprio Paese.

I mercenari

A partire dalla fine del XVI secolo, i mercenari svizzeri prestano servizio negli eserciti coloniali europei e partecipano a violente campagne di conquista e di mantenimento dell’ordine coloniale.

La disoccupazione e l’indigenza materiale, ma anche i modelli maschili che esaltano l’eroismo e la sete di avventura, sono fattori determinanti che spingono ad arruolarsi negli eserciti stranieri. Benché il servizio mercenario venga vietato nel 1859, arruolarsi negli eserciti stranieri rimane possibile. Migliaia di giovani svizzeri prestano servizio nella Legione straniera francese e nel Reale esercito delle Indie orientali olandesi, nell’Asia e nell’Africa coloniali.

E oggi?

Fino al XX secolo inoltrato, i mercenari svizzeri sono celebrati come eroi, come uomini forti pronti ad affrontare ogni battaglia. Viene invece tralasciato il fatto che i mercenari hanno contribuito a imporre regimi violenti, spesso sono morti o sono tornati in Svizzera severamente traumatizzati dalle violenze di cui hanno fatto esperienza.

I mercenari e i loro eccessi di violenza sono ricordati in modo diverso nelle ex colonie. Nel 2008 l’etnologo di Zurigo Edgar Keller e il suo collega Yoseph Agato Sareng hanno intervistato abitanti di Flores i cui genitori e nonni erano stati testimoni dei massacri del 1907 agli ordini di Hans Christoffel.

Nel 2023 Keller e Sareng hanno effettuato un altro giro di interviste. Nel documentario Franziskus Rema Lawa, Thomas Mite, Petronela Ene Sugi,  Martin Lalu, e Mosolaki Kristoferus Oramu raccontano delle violenze subite dai loro antenati, ma anche della resistenza contro gli olandesi. 

Le colonie di popolamento

A partire dal 1600 gli Stati coloniali fondano le cosiddette colonie di popolamento, dove le europee e gli europei devono coltivare terre apparentemente senza proprietario e dedicarsi al commercio. Così facendo contendono queste terre alla popolazione indigena.

Anche se l’emigrazione svizzera proviene perlopiù da ambienti poveri, sul lungo termine una buona parte beneficia, in quanto bianca, delle strutture di potere dominanti e contribuisce a cacciare in modo violento la popolazione autoctona – in Nord e Sud America soprattutto e, in alcuni casi, anche in Asia e Africa.

New Bern

Nel 1710 Christoph von Graffenried fonda la colonia di New Bern, nell’attuale Carolina del Nord, Stati Uniti. La potenza coloniale britannica gli assegna 16’200 ettari di terra, dove però vivono già delle famiglie del popolo Skarù·ręʔ (chiamato anche Tuscarora), che da anni lottano per la loro indipendenza.

Nel 1711 scoppia la guerra, il popolo Skarù·ręʔ assalta New Bern e la città viene quasi interamente distrutta. Nel 1712 i Skarù·ręʔ perdono la propria battaglia e centinaia di loro vengono uccisi o catturati e venduti come schiavi.

San Carlos

Quando, a partire dal 1809, i Paesi sudamericani si emancipano dalle potenze coloniali spagnola e portoghese, nascono degli Stati liberi, che sono governati da un’élite bianca e creola e che, seguendo il modello europeo, dovrebbero convertirsi in società bianche.

Tra il 1856 e il 1896 vengono fondate oltre 20 colonie di popolamento svizzere in Argentina – per la maggior parte dalla popolazione contadina impoverita proveniente dalle valli alpine vallesane – come, ad esempio, la colonia di San Carlos.

Povertà
Un gran numero di colone e di coloni è emigrato dalla Svizzera a causa della povertà. Spesso non si arricchiscono nella loro nuova patria e soltanto la seconda o la terza generazione gode di una migliore situazione economica.

Colonia di San Carlos, 1883 | Schweizerisches Wirtschaftsarchiv, Basel

Da un lato, questa fotografia mostra le misere condizioni di vita delle colone e dei coloni, dall’altro consolida l’idea di una terra vasta e disabitata. Ciò che non si vede è che le colone e i coloni si stabiliscono su terre periodicamente abitate dalla popolazione indigena, che viene cacciata con la forza.

E oggi?

Alla fine del XIX secolo lo Stato cileno conquista vaste zone nell’attuale Cile meridionale, dove i Mapuche vivono in autonomia. I Mapuche vengono uccisi e privati dei loro diritti, mentre le loro terre vengono espropriate e distribuite tra i coloni europei, come la famiglia Luchsinger originaria di Engi (GL).

I Mapuche lottano a tutt’oggi per ottenere la restituzione delle loro terre, comprese quelle che appartengono alla discendenza della famiglia Luchsinger, che invece se ne considera la legittima proprietaria.

Vendere ciò che non ti appartiene
L’opera Free To All è composta da un manifesto pubblicitario storico della Kansas Pacific Railway e dal ritratto di un uomo appartenente alla nazione kaw. Il kaw al centro copre la scritta che pubblicizza l’incredibile paesaggio da attraversare e scoprire a bordo del treno.

Il manifesto promette milioni di acri di terra free to all: questa dicitura si trova nel timbro in alto a destra sul cartellone. Chris Pappan posiziona la raffigurazione storica del kaw al centro per mostrare che questa terra non è affatto libera per tutti: una terra che in realtà appartiene alla popolazione indigena viene venduta per molti soldi e privatizzata. Gli autoctoni pagano con i trasferimenti forzati o con la vita.  

FREE TO ALL, Chris Pappan, 2013, acrilico e foglia oro su legno, Collezione NONAM

Cartellone della Kansas Pacific Railway, Kansas Pacific Railway Company, tra 1880 e 1900, Kansas Historical Society

Foto: esponente dei kaw, forse No-pa-wy, Alexander Gardner, Washington D.C., 1867, National Museum of the American Indian, P10140

L'arte di Chris Pappan
L’artista Chris Pappan (*1971, Colorado Springs, Stati Uniti) porta nel presente le vicende dei suoi antenati osage e kaw. I suoi lavori si basano sulla ledger art, una forma artistica tradizionale dei nativi americani diffusa su carta dal 1865. Con le sue opere Pappan pone l’attenzione sul fatto che la storia di queste persone non finisce con l’internamento nelle riserve: esse sono tuttora parte della società americana. Il messaggio principale della sua arte è: «We are still here».

Individui, non stereotipi
Per i suoi lavori attuali l’artista si ispira a foto storiche. Queste immagini aiutano Pappan a calarsi nella vita delle persone immortalate. L’altra faccia della medaglia, per quanto riguarda le foto, è che spesso venivano manipolate contribuendo a diffondere e riprodurre stereotipi.

Nel suo Scouts Honor Pappan mostra un fazzoletto da collo con al centro una stampa stereotipata. A quest’immagine l’artista contrappone i ritratti di due uomini ben distinti, con lineamenti e caratteristiche differenti. Essi rappresentano solo sé stessi in quanto individui, la stampa invece riassume in maniera stereotipata e superficiale un insieme di gruppi etnici.

Scouts Honor, Chris Pappan, 2019-2020, foto: Chris Pappan

Le missioni

A partire dal XVI secolo i missionari svizzeriprimi tra tutti i gesuiti in America latina – sono attivi in quasi ogni regione del globo per condurre alla fede cristiana le popolazioni che vi abitano. Una delle prime e delle maggiori organizzazioni missionarie evangeliche in Europa è la Missione di Basilea.

Membri delle missioni di ambo i sessi fondano ospedali e scuole insieme alle autorità locali. Talvolta sono all’origine di cambiamenti sociali, ma spesso le loro relazioni con la popolazione indigena sono plasmate dalla visione paternalistica che hanno del proprio compito. Di ritorno in patria, trasmettono l’immagine di culture inferiori nei territori colonizzati.

La Missione di Basilea

Nel 1817 devoti membri dell’élite borghese di Basilea fondano la Missione di Basilea insieme ai pietisti della Germania meridionale. Dal 1828 i missionari vengono inviati nella Costa d’Oro (l’attuale Ghana) e dal 1834 nell’India meridionale, dove convertono la popolazione locale e portano una presunta «civiltà benefica». 

Dal 1901 vengono mandate nelle regioni di missione anche donne nubili, poiché così facendo la sede centrale di Basilea spera di ottenere migliori «successi nella conversione» di donne «pagane».

Figurine
Le figurine in argilla provenienti dall’India sono usate per far conoscere ai futuri membri della missione e alla comunità di Basilea l’ambiente socio-culturale nella zona di missione. Le figurine hanno lo scopo di introdurli alla struttura sociale indiana.

Figurine, India, ca. 1886 | Sammlung der Basler Mission Depositum 1981, Museum der Kulturen Basel

Diario di una missionaria
Maria Müller-Kapff (1871–1958), moglie del missionario Wilhelm Müller attivo a Calicut, nell'India britannica, descrive la situazione al tempo della Prima guerra mondiale, quando i missionari e le missionarie venivano internati dalle forze britanniche. Il marito di Maria viene messo in custodia cautelare.

Diari su alcune delle esperienze vissute in India durante il periodo bellico 1914–1915, Maria Müller-Kapff | Mission 21, Bestand der Basler Mission 

Fino al 1901, le donne non possono essere attive come missionarie. La loro unica possibilità era un matrimonio combinato con un missionario celibe. Molte donne sono pronte a trasferirsi in un Paese lontano con uno sposo sconosciuto, perché lì possono condurre una vita indipendente a fianco del marito. Solo a partire dal 1901 la Missione di Basilea inizia a reclutare donne nubili per le missioni.

E oggi?

Dalla sua fondazione, alla Missione di Basilea vengono mosse anche delle critiche, che condurranno alla cessazione del suo lavoro missionario a metà degli anni 1950. Tali critiche sono rivolte alle conversioni e alle convinzioni che motivano l’attività missionaria, basate su una presunta superiorità della cultura europea.

Lo storico indiano Mukesh Kumar vede un effetto positivo nella realizzazione di strutture sanitarie e scolastiche, che in vari luoghi facilitano la vita alle parti della popolazione che sono state convertite.

Attivismo queer
Come artista queer, Sandeep TK si occupa delle tensioni tra varnas, classi e genere, ma incorpora anche le strutture di potere globali nate dall'eredità del passato coloniale. Le persone queer, in particolare, spesso lasciano i loro villaggi d'origine per sfuggire a queste strutture, a costo di lasciarsi alle spalle parte della loro cultura e di doversi adattare a un nuovo stile di vita:

«Mi interessano anche le aspirazioni delle persone queer dei piccoli centri a trasferirsi in una città più grande per entrare a far parte della cultura urbana e della più ampia rete queer. [...] Si tratta di un'esperienza collettiva di queer provenienti da piccoli centri che va di pari passo con le difficoltà di adattamento a una nuova cultura urbana, a una lingua e a uno stile di vita in città.»

Foto: Social media dell'artista

Serie fotografica «Let me add something in my own melody»
Nel suo processo creativo, l'artista si rende conto che le persone nelle fotografie conservate negli archivi della Missione di Basilea sono spesso fotografate in modo passivo, senza autodeterminazione e dipendenti dalla persona che scatta la foto. Collega la posizione passiva delle persone nelle fotografie con le storie dei suoi antenati nell'ambiente delle strutture coloniali. Decide quindi di raccontare queste storie in modo diverso e di fotografare se stesso nel processo. Con gli autoritratti, crea le sue nuove immagini del passato, che mostrano una persona autonoma - lui stesso.

La serie di foto ritrae l'artista in pose inscenate, raccontando le storie di sua nonna, di suo padre e le lettere dell'epoca della missione di Basilea.

«La Missione di Basilea giunse in Malabar con l'obiettivo di diffondere messaggi cristiani e, nel tentativo di raggiungere il proprio scopo, istituì scuole, fabbriche di piastrelle e unità di tessitura per impiegare le persone appartenenti alle comunità più umili.»

Estratto della serie «Let me add something in my own melody», 2020 | Courtesy of Sandeep TK

«Ho indossato abito e pantaloni davanti allo specchio, quando non c'era nessuno a guardarmi, quando ho sentito la notizia che avevo ottenuto il lavoro. Non ho mai trovato il coraggio di indossarlo davanti agli amici, ma l'ho indossato una volta quando mi sono trasferita in città.»

Estratto della serie «Let me add something in my own melody», 2020 | Courtesy of Sandeep TK

Archivio della missione di Basilea
«Alcuni anni fa, grazie ad una residenza di Pro Helvetia, ho avuto l'opportunità di trascorrere un po' di tempo nel loro archivio (della missione) a Basilea. (...) La Missione di Basilea era un'operazione missionaria cristiana, un'impresa europea con tutte le sfumature imperiali dell'epoca. Ma portò occhi nuovi nella regione e riuscì a vedere la situazione delle caste intoccabili per quello che era: oppressione. E nella misura in cui furono in grado di aiutare, le persone furono grate, per quanto l'esercizio fosse spinto dal fervore della conversione religiosa e della missione civilizzatrice. In quanto appartenente alle stesse caste intoccabili da loro colpite e proveniente da una famiglia che non si è convertita, ho avuto una reazione comprensibilmente complessa alla loro eredità nella mia patria.»

Citazione da: Reading the Body: In Conversation with Sandeep TK, MALLIKA VISVANATHANFEB 26, 2024, Asap Art, alternative South Asia Photography

Foto: Social media dell'artista

Gli esperti

Dalla metà del XIX secolo, molti esperti svizzeri lavorano per le potenze coloniali. I geologi cercano il petrolio, gli ingegneri costruiscono ponti, i funzionari riscuotono le tasse. La loro competenza tecnica è messa al servizio dello sviluppo e dell’amministrazione delle colonie.

Nello Stato Libero del Congo (1885–1908), la colonia privata del re belga Leopoldo II, lavorano all’incirca 200 svizzeri. Alcuni di loro, come Daniel Bersot, si esprimono criticamente, nei loro resoconti, sulla spietata massimizzazione dei profitti e sugli eccessi di violenza. Erwin Federspiel, invece, relativizza gli eventi e giustifica il dominio coloniale. Grazie a questi resoconti, gli orrori del Congo, il lavoro forzato per l’estrazione del caucciù e i brutali atti di violenza vengono rivelati e discussi pubblicamente in Svizzera.

Critica ambivalente
Nel 1897/1898 il neocastellano Daniel Bersot (1873–1916) ricopre la carica di funzionario nello Stato Libero del Congo per tre mesi. Al suo ritorno critica il principio stesso del colonialismo e riferisce nel suo libro dei maltrattamenti con la «chicote», una frusta in pelle d’ippopotamo che è usata, ad esempio, per punire chi non soddisfaceva le quote di raccolta di caucciù. Tuttavia, nel libro sono presenti anche affermazioni razziste.

«Sotto la chicote ! Queste tre parole riassumono la storia dell'Africa centrale nell'ultimo quarto di secolo; caratterizzano il regime di oppressione, di sfruttamento spietato a cui è sottoposto un paese immenso; racchiudono tutta la vita di paura e di fatica dei n— del Congo.»

Sous la chicote, Daniel Bersot, Ginevra, 1909 | Patrick Minder, Fribourg

Tentativo di giustificazione
Per dieci anni, a partire dal 1898, Erwin Federspiel (1871–1922) fa parte della force publique, la forza militare e di polizia dello Stato Libero del Congo, che fa ricorso alla violenza estrema per reprimere la resistenza della popolazione locale. Federspiel partecipa alla riscossione delle tasse durante gli orrori del Congo. Nel suo scritto, minimizza e giustifica gli eventi.

Wie es im Congostaat zugeht (Come funzionano le cose in Congo), Erwin Federspiel, Zurigo, 1909 | Zentralbibliothek Zürich, Bro 12780

Il reclutatore
A partire dal 1901 Jean Boillot-Robert (1913†) è il console belga a Neuchâtel e, in cambio di una commissione, recluta svizzeri della regione perché diventino funzionari dello Stato Libero del Congo. A tal scopo pubblica questo libro, in cui raccoglie le «testimonianze oculari» abbellite di svizzeri rientrati in patria dalla colonia

Leopold II et le Congo – Nos fils au continent noir, Jean Boillot-Robert, Neuchâtel, 1904 | Patrick Minder, Fribourg

La scienza

Sotto l’egida coloniale, le scienziate e gli scienziati svizzeri possono condurre ricerche in botanica, medicina tropicale o linguistica. Le loro scoperte si rivelano utili per le potenze coloniali: la cartografia, le conoscenze «etnografiche» o la geologia vengono usate per sottomettere le popolazioni e sfruttare le risorse naturali.

Quando non lo si ignora, ci si appropria del sapere indigeno. Le ricercatrici e i ricercatori «scoprono» punti di riferimento e specie animali o vegetali già noti da tempo alle popolazioni colonizzate. Da tali «scoperte» le scienziate e gli scienziati svizzeri traggono fama e profitti, senza citarne l’effettiva origine.

Naturalisti
Nel periodo compreso tra il 1883 e il 1907, nelle regioni colonizzate di Ceylon (attuale Sri Lanka) e Celebes (attuale Sulawesi, in Indonesia), i due naturalisti di Basilea Fritz (1859-1942) e Paul (1856-1929) Sarasin  intraprendono spedizioni scientifiche nei territori coloniali. Equipaggiati con strumenti di misurazione e con l’aiuto di lavoratori forzati, indagano i tracciati dei confini geologici, biogeografici e razziali antropologici tra Asia e Australia.

Cannocchiale di Paul Sarasin, 1900 circa | Historisches Museum Basel, Erben Beatrix Staub-Sarasin

Arnold Heim | © ETH-Bibliothek Zürich

Spedizioni di ricerca
Il geologo Arnold Heim (1882–1965) conduce ricerche su tutti i continenti. Molti dei suoi viaggi sono finanziati da aziende petrolifere. Nel corso della sua carriera diventa un difensore della natura e un sostenitore della decolonizzazione.

Spedizione a Virunga, lago Mutanda (Uganda), 1954  | ETH-Bibliothek Zürich, Bildarchiv, Hs_0494b-0090-003-AL

Quello del ricercatore temerario, che si avventura da solo «in profondità» di regni sconosciuti e «per primo» scopre o fotografa questo o quello, è un mito. Senza una cooperazione locale la ricerca coloniale non sarebbe possibile. Con il suo sapere e il suo dinamismo, la popolazione colonizzata partecipa in maniera decisiva alla storia del sapere. Non le vengono tuttavia riconosciute la scoperta e la conoscenza del proprio ambiente.

E oggi?

Dagli anni 1970 i Paesi che sono stati colonizzati richiedono la restituzione dei beni culturali e dei resti umani saccheggiati. Tuttavia, il trattamento delle collezioni museali di origine coloniale ha iniziato a suscitare dibattiti pubblici solo negli ultimi anni. Nel 2023, il Consiglio federale ha istituito una commissione indipendente per il patrimonio culturale storicamente problematico.

La decolonizzazione ha fatto il proprio ingresso nei musei: pertanto, l’indagine riguardante le circostanze di acquisizione degli oggetti e la loro restituzione è all’ordine del giorno in molti musei svizzeri.

Lo sfruttamento della natura

Nel corso del XIX secolo, il colonialismo è accompagnato da un profondo cambiamento e dalla distruzione di paesaggi, flora e fauna – con conseguenze sul clima percepibili ancora oggi.

Le colonie sono considerate fonti in apparenza inesauribili di risorse naturali. La domanda aumenta notevolmente con l’industrializzazione dell’Europa. Anche le svizzere e gli svizzeri saccheggiano le risorse naturali attraverso la coltivazione intensiva delle piantagioni e la caccia grossa, come mostrano gli esempi di Sumatra e dell’Africa orientale.

«Inizio di una piantagione»
Le foto degli album dei «proprietari di piantagione» svizzeri mostrano aree di foresta disboscate. Estese superfici boschive subiscono le conseguenze dell’agricoltura di piantagione coloniale sull’isola di Sumatra. Il radicale mutamento della natura è accettato e considerato necessario per aumentare i profitti. 

Album, Sumatra, 1880–1900 circa | Museo nazionale svizzero

Biodiversità in pericolo
Lo sfruttamento sempre maggiore di terreni va di pari passo con la perdita di habitat. La biodiversità diminuisce drasticamente, mentre le deforestazioni hanno effetti negativi sul clima. Le colonie vengono usate come fonti apparentemente inesauribili di risorse naturali.

«Proprietario di piantagione» davanti a un campo dissodato, Sumatra, fine del XIX secolo | Museum Heiden, Nachlass Traugott Zimmermann

Resistenza
L’agricoltura di piantagione racchiude in sé un forte potenziale di conflitto. Questa lettera indirizzata Carl Fürchtegott Grob (1830–1893) di Zurigo, proprietario di una piantagione, fornisce una prova della resistenza locale: il mittente minaccia di appiccare il fuoco se le sue condizioni non verranno soddisfatte.

Lettera minatoria con iscrizione in una delle lingue Batak, Sumatra, 1875–1880 | Völkerkundemuseum der Universität Zürich, Inv.nr. VMZ 01006, © Kathrin Leuenberger

E oggi?

Il colonialismo è anche un fattore chiave del cambiamento climatico. L’agricoltura di piantagione è nociva per l’ambiente e, ancora oggi, divora enormi superfici boschive. Il carbonio immagazzinato nelle foreste è rilasciato nell’atmosfera, contribuendo notevolmente all’effetto serra.

Le ex colonie pagano il prezzo di questo sfruttamento. Sono colpite in misura molto maggiore dagli effetti del cambiamento climatico, come ad esempio dall’innalzamento del livello dei mari. Per questo attiviste, attivisti e organizzazioni internazionali rivendicano una «giustizia climatica».

Continuità
L’artista indonesiano Maryanto si occupa di sfruttamento naturale e di strutture postcoloniali. Con questi frutti della palma da olio tematizza l’espansione delle piantagioni a Borneo, l’espulsione delle comunità indigene e la distruzione delle foreste.

Maryanto, Fresh Fruit Bunch, Yogyakarta, 2023, acrilico su tela | Yeo Workshop, Singapore

Il viaggio alla ricerca dell'olio di palma
Maryanto sta facendo ricerche per la sua arte nel suo paese d’origine, l’Indonesia. In registrazioni video, l'artista descrive il suo arrivo sull'isola di Kalimantan:

«Inizialmente, avevo immaginato Kalimantan come un'area naturalmente bella con foreste dense e grandi alberi, ma mi sono trovato di fronte a una realtà diversa. Il viaggio era punteggiato da grandi camion che trasportavano carbone e olio di palma.»

Maryanto, Perjalanan Kelapa Sawit (Il viaggio alla ricerca dell'olio di palma), 2023 | © Maryanto

L'olio di palma nella vita quotidiana
In quest'opera, la pianta di palma è sommersa da un diluvio di loghi di multinazionali e marchi familiari che non ci sono estranei. Da Oreo a Nestlé, tutti questi prodotti contengono olio di palma che potrebbe provenire da piantagioni in Indonesia. Maryanto ci esorta a riconoscere quanto ubiquitario sia diventato l'olio di palma nelle nostre vite, forse anche inconsapevolmente. Richiamando le sensibilità di un cartello improvvisato da attivisti e manifestanti, Palm oil in daily life è pervaso dalla stessa ardente passione degli atti di valore che queste comunità indigene stanno compiendo per proteggere le loro foreste.

Maryanto, Palm oil in daily life, 2023 | © Maryanto

Il razzismo

Fino alla fine del XVII secolo la presunta superiorità della cultura cristiana è ritenuta l’espressione di un «ordine divino». Questa idea è però messa in discussione con l’Illuminismo.

A cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, si consolidano in Europa le «teorie razziali» che motivano la presunta superiorità della «razza bianca» non più con la religione, bensì con fattori «biologici»: questi includono caratteristiche fisiche come la struttura dei capelli, il colore degli occhi oppure la forma del cranio. La «teoria razziale» che ne deriva contribuisce in modo essenziale a legittimare il dominio imperialista e lo sfruttamento delle «razze straniere» nelle colonie.

Sebbene sia stata sporadicamente criticata come pseudoscientifica in questo periodo, la ricerca sulle razze umane si afferma come un importante ramo di ricerca fino alla Seconda guerra mondiale (1939–1945). Oggi l’idea della «razza umana» è stata ufficialmente confutata, grazie anche alla ricerca genetica.

Il razzismo e la scienza

Intorno al 1900, le università di Zurigo e Ginevra si convertono in centri internazionali di «antropologia razziale». I «ricercatori in morfologia razziale» misurano il cranio di persone provenienti da tutto il mondo per suddividerle in «razze». A partire dagli anni 1920 è in particolare il metodo della «scuola zurighese» a diventare lo standard riconosciuto a livello internazionale.

Questi studi servono anche a proteggere la «razza bianca» che si presume minacciata. In Svizzera la «teoria razziale» e l’eugenetica trovano ancora un impiego sporadico fino agli anni 1960.

Misurazione
L’Istituto di antropologia di Zurigo diventa tristemente famoso per i suoi metodi di misurazione – ad esempio la misurazione dei crani. I metodi e gli strumenti di misurazione vengono sviluppati e testati nelle colonie. 

Compasso di misurazione, Siber Hegner & Co. AG, Zurigo, 1960 circa | Institut für Medizingeschichte, Universität Bern

Studiosi svizzeri delle «razze umane»

Professore a Harvard assai autorevole
Louis Agassiz (1807-1873), zoologo, paleontologo e glaciologo, nel 1846 emigra negli Stati Uniti e diventa uno dei principali oppositori della teoria darwiniana dell’evoluzione. Nella sua concezione della gerarchia delle «razze» lo studioso classifica l’umanità secondo una graduatoria ben definita, considerando la «razza bianca» superiore alla «razza nera». Agassiz è contrario ai «miscugli razziali»; definisce i «meticci» inferiori e vuole che lo Stato americano s’impegni nella segregazione razziale e nell’accelerazione della scomparsa dei «mezzosangue».

Nel 2007 il consiglio federale dice no alla richiesta di cambiare nome alla montagna Agassizhorn, lo stesso fanno i comuni di Grindelwald, Guttannen e Fieschertal nel 2010 e nel 2020. A Neuenburg invece nel 2019 piazza «Espace Louis-Agassiz» diventa «Espace Tilo-Frey».

Carte de visite di Louis Agassiz, William Shaw Warren, 1865 circa via Wikimedia Commons

Teoria dell’evoluzione come pietra angolare
In quanto seguace convinto del poligenismo, la dottrina secondo cui il genere umano deriva da razze diverse, Carl Vogt (1817–1895) sostiene che gli esseri umani non si sono evoluti a partire da una sola scimmia simile all’essere umano, ma da più scimmie. Da ciò ricava che le persone nere, e in particolare le donne nere, presentano un livello di evoluzione inferiore. Secondo Vogt, è in particolare dalla forma del cervello e del cranio che si possono riconoscere le maggiori differenze, non tra persone nere e bianche, bensì tra i sessi di una stessa «razza». Tra il 1839 e il 1844 è assistente di Louis Agassiz a Neuchâtel e nel 1873 cofondatore dell’Università di Ginevra.

Carl Vogt, Fotografo della corte imperiale, Vienna, 1860 circa | The New York Public Library

Rigida separazione tra le «razze»
Il medico Auguste Forel (1848–1931) difende le idee dell’eugenetica e sostiene la preservazione e la promozione dell’omogeneità della razza bianca. Le sue idee eugenetiche e razziste entrano nel discorso scientifico svizzero, che giustifica le pretese di superiorità del colonialismo.

Auguste Forel, da: Clark University, 1889-1899, decennial celebration, Worcester, Mass, 1899 | Internet Archive

Superiorità naturale
L’ingegnere meccanico Julius Klaus (1849–1920) è un darwinista convinto e crede in «razze umane» di valore geneticamente superiore e inferiore. In questo contesto, la razza bianca è per sua natura superiore a tutte le altre. Klaus giustifica così il colonialismo. Grazie al suo contributo finanziario pari a circa 1'275'000 franchi, viene creata nel 1922 la Fondazione Julius Klaus, che oggi è considerata un «catalizzatore» della genetica e della ricerca sulle razze.

Julius Klaus, regolamento della Fondazione Julius Klaus, Zurigo, 1925 | Wellcome Collection

Gerarchia delle «razze»
Tra il 1880 e il 1910 lo zoologo Emile Yung (1854–1918) formula numerose teorie di anatomia comparata tra le diverse «razze» umane e le scimmie. In modo simile a Carl Vogt, nelle sue teorie non si limita a gerarchizzare le «razze», ma fa riferimento anche al genere e alla classe. Yung pratica delle misurazioni sul corpo di persone nere, che vengono esibite nel 1896 nel «Village Noir» in occasione dell’Esposizione nazionale svizzera.

Emile Yung, Jean Lacroix, Genf | Bibliothèque de Genève

«Igiene razziale» ed etica
Nelle sue ricerche, lo psichiatra Paul Eugen Bleuler (1858–1939) si rifà, come la maggior parte degli psichiatri universitari del suo tempo, alla teoria della degenerazione, secondo la quale le patologie psichiche devono essere viste come una sorta di «degenerazione». Così facendo, la teoria della degenerazione si intreccia con idee eugenetiche e, successivamente, d’«igiene razziale». Nel suo saggio Die naturwissenschaftlichen Grundlagen der Ethik del 1936, Bleuler riafferma la necessità di una rigorosa «igiene razziale» come fondamento di un ordine sociale coerente.

Paul Eugen Bleuler, 1910 circa | ETH-Bibliothek Zürich, Bildarchiv, Portr_09914

Politicizzazione dell’«igiene razziale»
Già allievo di Auguste Forel, Ernst Rüdin (1874–1952) è cofondatore della rivista «Archiv für Rassen- und Gesellschaftsbiologie», edita dal tedesco Alfred Ploetz. In questa rivista militante dedicata all’«igiene razziale», Rüdin ritiene che le prestazioni scolastiche della popolazione americana nera siano un «pericolo da non sottovalutare per la razza bianca» e mette in guarda da una «mescolanza con il sangue bianco». Nel 1905 è uno dei membri fondatori della «Società per l’igiene razziale» presieduta da Alfred Ploetz.

Ernst Rüdin, tratto da: Erblehre und Rassenhygiene im völkischen Staat, Ernst Rüdin, Monaco di Baviera, 1934 | Zentralbibliohthek Zürich, JKS A 1292

Antisemitismo pseudoscientifico
George Montandon (1879–1944) diventa celebre in tutta Europa dopo aver formulato nell’ottobre del 1940 – dopo la resa della Francia – «teorie razziali» antisemite nella sua opera Comment reconnaître le Juif?. Tra il 1941 e il 1942 le sue «teorie razziali» vengono messe in pratica nel Reich tedesco. In Francia, Montandon lavora per i nazisti in qualità di «esperto razziale in questioni ebraiche».

George Montandon, Neuchâtel, 1913 | Zentralbibliothek Zürich, BR 435

Per la preservazione della «razza bianca»
Nel 1921, l’antropologo Otto Schlaginhaufen (1879–1973) fa parte dei fondatori della Fondazione Julius Klaus per lo studio dell’ereditarietà, dell'antropologia sociale e dell’igiene razziale, creata nel 1921 il cui scopo è preparare e attuare «riforme pratiche per il miglioramento della razza bianca». Schlaginhaufen misura i crani di persone asiatiche con l’obiettivo di gettare le fondamenta per una tipologia razziale della popolazione svizzera. È inoltre a capo del primo grande progetto eugenetico svizzero, in cui sono esaminati con l’ausilio di misurazioni antropologiche oltre 35'000 assoggettati all’obbligo militare tra il 1927 e il 1932.

Otto Schlaginhaufen, Franz Schmelhaus, Zurigo, 1914 | Universitätsarchiv Zürich, UAZ AB.1.0873

Nuova autorità per la «ricerca sulle razze» svizzera
Marc-Rodolphe Sauter (1914–1983) è un allievo dell’antropologo ginevrino Eugène Pittard (1867–1962) e il suo successore quale cattedratico di antropologia a Ginevra. Sauter si premura affinché la «ricerca sulle razze» rimanga all’ordine del giorno dell’antropologia ginevrina per diversi decenni. Nelle sue ricerche si impegna a suddividere e classificare le popolazioni europee in diverse «razze» al fine di conferire nuova autorità alla «ricerca razziale» svizzera dopo la Seconda guerra mondiale.

Marc Roldolphe Sauter, prima del 1952 | Bibliothèque de Genève

Il razzismo strutturale oggi

Il razzismo strutturale, che parte da norme e istituzioni, consiste in una posizione svantaggiata a livello di istruzione, assistenza sanitaria, accesso all’alloggio e all’occupazione, come pure nel cosiddetto «profiling razziale», ossia i controlli di polizia basati sul colore della pelle.

Nel 2022, lo studio di riferimento del Servizio per la lotta al razzismo in Svizzera, che si basa sulla raccolta di testimonianze, mostra che le persone che provengono dall’Europa sudorientale, nere e appartenenti a minoranze religiose sono esposte a una discriminazione strutturale.

Resistenza ed empowerment

A partire dagli anni 1970 diverse associazioni e singole persone si battono contro il razzismo e la discriminazione in Svizzera. Nel 1995 la norma penale contro il razzismo viene introdotta nel Codice penale. La legge protegge le persone discriminate, minacciate o sminuite per il colore della loro pelle, la loro etnia o la loro religione.

Oltre a numerose reti e organizzazioni autonome, in quasi tutti i cantoni esiste un servizio o un centro di contatto pubblici per la lotta al razzismo e alla discriminazione.

Robin Bervini, *1989, Ticino

Mi ci è voluto molto tempo per accettare il colore della mia pelle e le mie origini nere. Attraverso il mio lavoro e il mio percorso di auto-accettazione, spero di parlare e di entrare in contatto con gli altri, indipendentemente dalla loro cultura, dal loro genere o dalla loro classe sociale.

Robin Bervini è un fotografo e artista visivo svizzero. Il suo lavoro si concentra da un lato sull’uomo, dall’altro su sperimentazioni tecniche per trovare nuove forme espressive. All’inizio Bervini ha focalizzato la sua ricerca sui ritratti e sul corpo, indagato con pellicole tradizionali e istantanee. Attualmente si occupa della rappresentazione dell’individuo esplorando nuove tecniche – la fotogrammetria, i modelli 3-D e la realtà virtuale – e concentrandosi sull’identità etnica, sul genere e sull’appartenenza sociale. Al momento lavora anche come creative producer presso Stojan.com.

Le opere di Bernini sono state esposte a Tokyo, Parigi, Zurigo, Ginevra, Lugano e Locarno.

Marion Hermann, *1975, Zurigo/Berna

Cerco di dare visibilità alle persone che non godono dei miei stessi privilegi. 

Marion Hermann è contitolare e amministratrice del progetto per l’uso temporaneo di immobili «Das Dazw/schen» a Zurigo.

«Das Dazw/schen» cerca di garantire che anche persone vittime di razzismo strutturale abbiano accesso ad ambienti in affitto e abbiano uno spazio. «Provo a snellire il più possibile l’iter amministrativo e, se qualcuno ha bisogno di aiuto, gli dedico tempo. Così anche moltissime ONG si rivolgono a «Das Dazw/schen.»

Hermann si definisce un*attivista. Per esempio partecipa spesso a eventi e manifestazioni a sostegno dei diritti umani.Zurigo/Berna

Mardoché Kabengele, *1995, Berna

Per poter discutere di razzismo è importante ricordare la sua storia e la battaglia della società civile per arginarlo.

Mardoché Kabengele fa parte del Berner Rassismus-Stammtisch, dove si adopera per creare una rete di persone con realtà di vita differenti e si impegna contro la discriminazione strutturale. È inoltre attivo in diversi collettivi, tra cui il community center Living Room o il talk show «We talk – Schweiz ungefiltert». Dal 2020 lavora nel settore amministrativo della sede dell’Istituto Nuova Svizzera. Al momento il ventinovenne s’interroga sulle utopie attiviste e si batte per una «discussione dai toni calmi» sulla (post-)migrazione. Secondo Kabengele, infatti, il fenomeno migratorio oggi non è una situazione eccezionale, ma appartiene alla quotidianità della società svizzera.

Sandra Knecht, *1968, Basilea/Buus

Il concetto di Heimat – «casa» o «luogo d’origine» – va ridefinito di continuo… e proprio questo faccio nel mio lavoro.

Sandra Knecht è cresciuta nell’Oberland di Zurigo. Prima di decidersi a fare dell’arte la sua occupazione principale ha lavorato per 25 anni come pedagogista. Nelle sue opere si dedica soprattutto ai temi dell’identità o della Heimat – «casa» o «luogo d’origine» – , o all’«identità della Heimat», come la definisce lei stessa. Nell’opera My Land Is Your Land, premiata con lo Schweizer Kunstpreis nel 2022, Sandra Knecht indaga appunto il concetto di Heimat, per lei fortemente caratterizzato dall’inclusione e dalla solidarietà. Da diversi anni si occupa anche di Heimat come luogo sconosciuto (Home is a Foreign Place), prendendo sempre come punto di partenza la vita in campagna. Nel novembre 2015, nella zona portuale di Basilea, Sandra Knecht ha aperto la Chnächt Scheune. Nel bel mezzo di un non-luogo ha creato così una Heimat, una «casa» dove tutti gli esseri umani sono benvenuti.

Della prassi artistica di Sandra Knecht fanno parte anche cucina, film e performance.

Shyaka Kagame, *1983, Ginevra

Non definirei necessariamente il mio lavoro come militante. Direi semmai che ho un approccio creativo hip-pop: esplorare ciò che si è e ciò che vivono le persone intorno a noi.

Shyaka Kagame è nato a Ginevra nel 1983 da genitori di origini ruandesi.

Dopo gli studi di scienze politiche inizia a girare documentari. Il suo primo lungometraggio, Bounty (JMH & FILO Films/RTS), esce nel 2017.

Il film affronta le questioni identitarie della prima generazione afro-svizzera e accompagna nella loro quotidianità cinque persone con profili differenti.

Nel 2018, per il programma Temps Présent (RTS), Kagame realizza Policiers vaudois, une violente série noire, un reportage sull’aumento delle morti degli uomini neri durante gli interventi della polizia nel Canton Vaud.

Nel 2023 Kagame è autore e voce narrante del podcast Boulevard du Village noir (RTS/Futur Proche), una serie che indaga il razzismo e l’incoscio coloniale in Svizzera sull’esempio della zona di boulevard Carl-Vogt, a Ginevra.

Walesca Frank, *1991, Luzern

Ciò che ci rende forti come società sono le nostre differenze individuali.

Walesca Frank si definisce una designer della comunicazione militante e nel 2022, con il «Black Stammtisch» di Lucerna, ha dato vita a un progetto per combattere il razzismo e la discriminazione. Il suo scopo è accrescere la consapevolezza per la diversità culturale mettendo in primo piano la rappresentazione visiva di persone nere. Non si tratta solo della rappresentazione sui media, ma anche della realtà fisica e della complessità dell’essere neri/e e svizzeri/e. Dal 2024 esiste un «Black Stammtisch» anche a Zurigo.

Durante l’università, Walesca ha affrontato la questione di come si parla del razzismo e su questa base ha sviluppato diversi format di discussione tra cui il «Black Stammtisch». In questo spazio protetto si ritrovano persone non solo per condividere le loro esperienze riguardo al razzismo, ma anche per parlare insieme di «black joy» e di salute mentale.

Il razzismo è un fenomeno a più dimensioni che si manifesta sistematicamente nel quotidiano a livello individuale, istituzionale e strutturale. Questi livelli sono indissolubilmente legati tra loro e hanno ripercussioni reciproche. Contengono rapporti di potere che producono norme e pratiche sociali, e influenzano le istituzioni, oltre che gli individui e le loro interazioni.

L’opposizione a questi rapporti di potere ha luogo là dove gli individui vengono messi a confronto con queste istituzioni, pratiche e interazioni. I sei ritratti ci presentano persone che si battono attivamente contro strutture e pratiche razziste e discriminanti, e dimostrano la loro resistenza al razzismo rifiutandosi di ignorarlo, e quindi affrontandolo, scambiandosi esperienze al riguardo, raccontandolo o facendo nascere una consapevolezza attraverso il loro lavoro artistico.

Le foto sono state scattate nel 2024 dalla fotografa Yasmin Müller.

Continuità coloniali

Ribaltamento di un monumento | © Museo nazionale svizzero

Ribaltamento di un monumento
Nel 2021 l’artista ginevrino Mathias C. Pfund colloca una scultura di David de Pury (1709–1786), coinvolto nel commercio triangolare e quindi anche nella tratta delle persone ridotte in schiavitù, in scala ridotta e a testa in giù accanto alla statua originale del 1855.

Mathias C. Pfund, Great in the concrete, ex. 2/5, 2022, bronzoMuseo nazionale svizzero

Per ulteriori informazioni: Whitey on the Moon & La tête dans le socle

Agassiz a testa in giù
Nel 1906, un terremoto colpì San Francisco con tale forza che la statua di Louis Agassiz cadde dalla facciata della Stanford University. Il naturalista e glaciologo svizzero, che tuttavia sviluppò anche teorie razziste negli Stati Uniti, atterrò a testa in giù e si conficcò nel terreno. Anni dopo, questo evento venne interpretato come un gesto simbolico della natura, e l'immagine di Agassiz infossato fu utilizzata nella campagna Demounting Agassiz.

Statua di Louis Agassiz buttata giù dal terremoto, Antonio Frilli, Stanford University, San Francisco, 1906 | Articolo di giornale «The Fall of Agassiz at San Francisco», The Sphere, 1906 

Il monumento a David De Pury
Nel 2022 il consiglio comunale di Neuchâtel bandisce un concorso artistico e di cui Mathias C. Pfund è co-vincitore. Pfund prende spunto dall’immagine della statua caduta di Agassiz per sollevare interrogativi riguardo al monumento a David de Pury (1709–1786), banchiere e mercante di schiavi. Con la sua opera l’artista non vuole stabilire a tutti i costi un nesso tra le due biografie, bensì far riflettere sul modo in cui vengono rappresentati i «grandi uomini» nello spazio pubblico.

Mathias C. Pfund definisce la sua versione della statua, piccola e rovesciata rispetto all’originale, una «nota in calce» al riconoscimento dedicato a De Pury presente nello spazio pubblico.

Mathias C. Pfund, Great in the concrete, 2022, Bronze

L’installazione video

Che cosa significa l’eredità coloniale per la Svizzera di oggi? L’installazione video inscena, sotto forma di podio dialogico, i dibattiti sociali attuali e le diverse posizioni e prospettive. I temi dibattuti sono:

  •  Tracce coloniali e punti ciechi
  •  Eredità coloniale e cultura della memoria
  •  Responsabilità storica e riparazione

Prendono la parola diverse persone che rappresentano i rispettivi ambiti tematici.

© Museo nazionale svizzero

Dossier didattico di accompagnamento per insegnanti

240911_kolonial_begleitdossier_it_download.pdf

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