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Visuale della mostra «Colonialismo – intrecci globali della Svizzera»

Colonialismo – Intrecci globali della Svizzera

Sin dal XVI secolo, la società svizzera è sempre più interconnessa a livello globale. In undici capitoli, la mostra si è soffermata sui campi di attività legati al colonialismo che hanno visto il coinvolgimento di svizzere e svizzeri e spaziano dalla partecipazione alla tratta delle persone ridotte in schiavitù allo sfruttamento di esseri umani e di risorse naturali giustificato dalla ricerca scientifica dell’epoca, passando per il servizio mercenario nelle colonie.

Lungo il percorso espositivo sono state presentate non solo personalità e istituzioni provenienti dal territorio dell’attuale Svizzera, ma anche persone ridotte in schiavitù e vittime del colonialismo che a questo hanno opposto resistenza, benché oggi molte tracce siano andate quasi perse.

L’eredità del colonialismo europeo continua a plasmare il mondo di oggi. Nella parte finale della mostra il pubblico era invitato a confrontarsi con dibattiti d’attualità.

Troverete qui una selezione di contenuti tratti dalla mostra presentata al Museo nazionale a Zurigo dal 13 settembre 2024 al 19 gennaio 2025. La mostra verrà esposta in forma adattata al Castello di Prangins dal 27 marzo all’11 ottobre 2026.

«Die vielfältige, aber schwer fassbare Rolle unseres Landes stellt uns vor eine Entscheidung. Wenden wir uns vom Thema ab, weil es so komplex, ja scheinbar undurchdringlich ist? Oder sehen wir besonders genau hin, weil wir nur so begreifen können, wie es wirklich war? Und wie dieses koloniale Erbe unsere Gegenwart prägt?»

Bundesrätin Elisabeth Baume-Schneider, Vernissage in Zürich, 12.09.2024

An der Vernissage zur Ausstellung haben Bundesrätin Elisabeth Baume-Schneider und Henri-Michel Yéré, Historiker und Poet der Universität Basel, gesprochen.

Inhaltsverzeichnis

Asservimento

Per la coltivazione delle piantagioni nei Caraibi e nell’America del Nord e del Sud, tra il XVI e il XIX secolo i mercanti europei hanno deportato più di 12 milioni di persone dall’Africa alle colonie. Ciò è stato possibile anche perché esisteva già un commercio di schiavi interno all’Africa.

Oltre 250 imprese e privati svizzeri sono coinvolti nel commercio e nella deportazione di circa 172'000 persone. Questa forma di sfruttamento si fonda sulla disumanizzazione delle persone ridotte
in schiavitù. La tratta transatlantica ha creato le condizioni affinché il razzismo si sviluppasse a partire dal XVI secolo.

© Museo nazionale svizzero

Ricchezza ottenuta attraverso lo sfruttamento
La tratta atlantica raggiunge il suo apice nel XVIII secolo. Anche città come Berna e Zurigo investono nel commercio di schiavi:
entrambe sono azioniste della South Sea Company britannica,
che deporta oltre 38’000 persone ridotte in schiavitù.

Stock, azione della South Sea Company, Londra, 1729 | Sammlung Schweizer Finanzmuseum der SIX Group, Zürich

Fabbricante, commerciante, investitore
L’azienda Christoph Burckhardt & Cie produce indiane a Basilea e commercia in beni coloniali. La famiglia Burckhardt partecipa a 21 traversate durante le quali vengono deportate 7’350 persone ridotte in schiavitù.

Estratto conto relativo alla nave per la tratta degli schiavi Le Cultivateur, Ch. Burckhardt & Cie, Basilea, 1815–1817 | Schweizerisches Wirtschaftsarchiv, Basel

L’elenco di esseri umani accanto a beni commerciali di vario genere mostra che le persone ridotte in schiavitù erano considerate alla stregua di merci. La schiavitù non è un’invenzione del colonialismo europeo, ma la tratta atlantica degli schiavi rappresenta una nuova dimensione di capitalizzazione dei corpi umani. Le persone ridotte in schiavitù sono svilite e ridotte a carichi di merce e deportate nelle colonie con violenza mostruosa.

Indiane | © Museo nazionale svizzero

Indiane
Le tele di cotone stampate sono una moneta importante di scambio
usata per ottenere persone ridotte in schiavitù. Questo frammento è
probabilmente l’unico tessuto conservato a essere stato prodotto espressamente per essere scambiato con persone ridotte in schiavitù.

Le lion et la chèvre, Manufacture Petitpierre & Cie, Nantes, 1790 circa, stampa con blocchi di legno su cotone | Museo nazionale svizzero

biografie-jacques-louis-de-pourtales.pdf
biografie-pauline-buisson.pdf

Il possesso di persone ridotte in schiavitù

A partire dal XVII secolo privati svizzeri possiedono piantagioni, ad esempio nei Caraibi e in Brasile, che gestiscono impiegando persone ridotte in schiavitù. Lo sfruttamento di donne, bambini e uomini ridotti in schiavitù consente loro di arricchirsi notevolmente.

Anche imprenditori e mercenari svizzeri possiedono persone ridotte in schiavitù nelle colonie europee. In Asia, ad esempio, i mercenari vivono
spesso con donne ridotte in schiavitù. È noto che alcuni di loro hanno portato con sé in Svizzera persone ridotte in schiavitù.

E oggi?

Da anni vengono avanzate richieste di riparazione dei danni causati dal crimine della schiavitù. Non è ancora chiaro se e chi debba pagare e chi ricevere gli indennizzi. Lo storico Hans Fässler mette le cose in prospettiva.

In Brasile, il nome Helvécia testimonia il passato svizzero di questo luogo. La memoria della schiavitù persiste nelle e nei discendenti. Le opere del fotografo svizzero-brasiliano Dom Smaz e i pannelli di tessuto ricamati dall’artista svizzera Denise Bertschi ricordano questo passato.

Discendenti della schiavitù
Quando la schiavitù viene abolita in Brasile nel 1888, circa 2’000 persone ridotte in schiavitù conquistano la libertà a Helvécia,
l’ex colonia elvetico-tedesca di Leopoldina: è così anche per il nonno di Dona Cocota.

Dom Smaz, Dona Cocota, Helvécia, Brasile, 2015Museo nazionale svizzero

Tracce di famiglie svizzere
A Helvécia, l’ex colonia elvetico-tedesca di Leopoldina, vive non solo la discendenza delle persone ridotte in schavitù, ma anche quella della famiglia svizzera Sulz.

Dom Smaz, Carlos Henrique Cerqueira (nipote di Henrique Sulz), Helvécia, Brasile, 2017 | Museo nazionale svizzero

Il commercio

A partire dal XVI secolo gli svizzeri commerciano in cosiddetti prodotti coloniali: seta, spezie, tabacco o tè provenienti da oltreoceano. In seguito, sono soprattutto i tessili a diventare la principale moneta di scambio nel commercio triangolare transatlantico – un’attività assai lucrativa per le case di commercio.

Dalla metà del XIX secolo l’Africa e il Sud-est asiatico sono i mercati di sbocco per i prodotti industriali europei, mentre l’Europa importa materie prime per stimolare la propria produzione industriale. In Svizzera, un Paese povero di materie prime, alcune case di commercio sfruttano questa situazione per entrare nell’olimpo dei maggiori commercianti di materie prime del mondo.

Cacao
La pianta del cacao cresce soltanto nelle zone tropicali. Nel XVIII secolo il cacao è una delle materie prime più importanti raccolte dalle persone ridotte in schiavitù. Viene venduto sul mercato mondiale anche da compagnie commerciali svizzere. 

Il cacao arriva in Africa dal Sud America soltanto nel XIX secolo. La marcia trionfale del cioccolato svizzero non sarebbe possibile senza il cacao proveniente dalle colonie e il legame tra l’industria cioccolatiera e l’economia lattiera in piena crescita.

Frutto di cacao, cacahuatl (Nahuatl, lingua degli Aztechi), Ghana, 2024

Essiccatoio per il cacao ad Accra
Fondata nel 1859, la basilese Missions-Handlungs-Gesellschaft
nasce dalla Missione di Basilea. La società è attiva nel commercio del cacao e coltiva piante di cacao. A partire dal 1921 la Union Trading Company è una delle maggiori società commerciali della Svizzera.

Accra, essiccatoio per il cacao, 1904/1905 circa | Mission 21, Bestand der Basler Mission 

La Missions-Handlungs-Gesellschaft è membro del cartello delle società commerciali europee e può quindi fare pressione sui
prezzi di produzione e ostacolare le imprese africane concorrenti presenti sul mercato. Nella foto: manodopera locale e il sorvegliante vestito di «bianco coloniale» – la disparità di potere è chiaramente espressa.

Il commercio di transito

Le società di transito commerciano materie prime senza che la merce entri nel Paese in cui hanno la loro sede. Grazie al libero accesso ai mercati e
a un’elevata capitalizzazione, società come la basilese Missions-Handlungs-Gesellschaft o la Volkart & Cie realizzano importanti guadagni e traggono vantaggio dal fatto che le colonie sono orientate alla produzione di materie prime.

A partire dal 1880 il calo dei prezzi dei trasporti e le nuove tecnologie di comunicazione portano a un enorme incremento delle attività commerciali;
la Svizzera diventa uno degli snodi principali del commercio di materie prime.

Perché la Svizzera – un Paese senza materie prime proprie e con una topografia sfavorevole – è così ricca?
Allo stadio attuale della ricerca, è difficile rispondere alla domanda se la Svizzera (come Stato) si sia arricchita anche grazie ai suoi intrecci coloniali. Mentre singole imprese e famiglie hanno indubbiamente beneficiato del colonialismo, intorno al 1900 la maggior parte della popolazione conduceva ancora un’esistenza di indigenza e svantaggi.

Miti e fatti: l’origine della ricchezza svizzera, dibattito con Markus Somm, giornalista e storico, e Hans Fässler, storico, Echo der Zeit, 21 dicembre 2021

E oggi?

In Svizzera, nel 2021, sono registrate circa 960 imprese attive nel commercio di materie prime che gestiscono circa un quarto delle transazioni relative a questa attività.

I profitti continuano a confluire nel Nord globale, mentre i Paesi del Sud globale, da cui provengono le materie prime, sopportano il pesante fardello dei danni ambientali o sono esposti a condizioni
lavorative disumane. Le popolazioni non beneficiano quasi mai della ricchezza di materie prime del proprio Paese.

I mercenari

A partire dalla fine del XVI secolo, i mercenari svizzeri prestano servizio negli eserciti coloniali europei e partecipano a violente campagne di conquista e di mantenimento dell’ordine coloniale.

La disoccupazione e l’indigenza materiale, ma anche i modelli maschili che esaltano l’eroismo e la sete di avventura, sono fattori determinanti che spingono ad arruolarsi negli eserciti stranieri. Benché il servizio mercenario venga vietato nel 1859, arruolarsi negli eserciti stranieri rimane possibile. Migliaia di giovani svizzeri prestano servizio nella Legione straniera francese e nel Reale esercito delle Indie orientali
olandesi, nell’Asia e nell’Africa coloniali.

biografie-alois-wyrsch.pdf
biografie-hans-christoffel.pdf
biografie-si-singamangaraja-xii.pdf

E oggi?

Fino al XX secolo inoltrato, i mercenari svizzeri sono celebrati come eroi, come uomini forti pronti ad affrontare ogni battaglia. Viene invece tralasciato il fatto che i mercenari hanno contribuito a imporre regimi violenti, spesso sono morti o sono tornati in Svizzera severamente traumatizzati dalle violenze di cui hanno fatto esperienza.

I mercenari e i loro eccessi di violenza sono ricordati in modo diverso nelle ex colonie. Nel 2008 l’etnologo di Zurigo Edgar Keller e il suo collega Yoseph Agato Sareng hanno intervistato abitanti di Flores i cui genitori e nonni erano stati testimoni dei massacri del 1907 agli ordini di Hans Christoffel.

Nel 2023 Keller e Sareng hanno effettuato un altro giro di interviste. Nel documentario Franziskus Rema Lawa, Thomas Mite, Petronela Ene Sugi,  Martin Lalu, e Mosolaki Kristoferus Oramu raccontano delle violenze subite dai loro antenati, ma anche della resistenza contro gli olandesi. 

Le colonie di popolamento

A partire dal 1600 gli Stati coloniali fondano le cosiddette colonie di popolamento, dove le europee e gli europei devono coltivare terre apparentemente senza proprietario e dedicarsi al commercio. Così facendo contendono queste terre alla popolazione indigena.

Anche se l’emigrazione svizzera proviene perlopiù da ambienti poveri, sul lungo termine una buona parte beneficia, in quanto bianca, delle strutture di potere dominanti e contribuisce a cacciare in modo violento la popolazione autoctona – in Nord e Sud America soprattutto e, in alcuni casi, anche in Asia e Africa.

New Bern

Nel 1710 Christoph von Graffenried fonda la colonia di New Bern, nell’attuale Carolina del Nord, Stati Uniti. La potenza coloniale britannica gli assegna 16’200 ettari di terra, dove però vivono già delle famiglie del popolo Skarù·ręʔ (chiamato anche Tuscarora), che da anni lottano per la loro indipendenza.

Nel 1711 scoppia la guerra, il popolo Skarù·ręʔ assalta New Bern e la città viene quasi interamente distrutta. Nel 1712 i Skarù·ręʔ perdono la propria battaglia e centinaia di loro vengono uccisi o catturati e venduti come schiavi.

San Carlos

Quando, a partire dal 1809, i Paesi sudamericani si emancipano dalle potenze coloniali spagnola e portoghese, nascono degli Stati liberi, che sono governati da un’élite bianca e creola e che, seguendo il modello europeo, dovrebbero convertirsi in società bianche.

Tra il 1856 e il 1896 vengono fondate oltre 20 colonie di popolamento svizzere in Argentina – per la maggior parte dalla popolazione contadina impoverita proveniente dalle valli alpine vallesane – come, ad esempio, la colonia di San Carlos.

Povertà
Un gran numero di colone e di coloni è emigrato dalla Svizzera a causa della povertà. Spesso non si arricchiscono nella loro nuova patria e soltanto la seconda o la terza generazione gode di una migliore situazione economica.

Colonia di San Carlos, 1883 | Schweizerisches Wirtschaftsarchiv, Basel

Da un lato, questa fotografia mostra le misere condizioni di vita delle colone e dei coloni, dall’altro consolida l’idea di una terra vasta e disabitata. Ciò che non si vede è che le colone e i coloni si stabiliscono su terre periodicamente abitate dalla popolazione indigena, che viene cacciata con la forza.

E oggi?

Alla fine del XIX secolo lo Stato cileno conquista vaste zone nell’attuale Cile meridionale, dove i Mapuche vivono in autonomia. I Mapuche vengono uccisi e privati dei loro diritti, mentre le loro terre vengono espropriate e distribuite tra i coloni europei, come la famiglia Luchsinger originaria di Engi (GL).

I Mapuche lottano a tutt’oggi per ottenere la restituzione delle loro terre, comprese quelle che appartengono alla discendenza della famiglia Luchsinger, che invece se ne considera la legittima proprietaria.

biografie-christoph-von-graffenried.pdf
biografie-chief-hancock.pdf

Vendere ciò che non ti appartiene
L’opera Free To All è composta da un manifesto pubblicitario storico della Kansas Pacific Railway e dal ritratto di un uomo appartenente alla nazione kaw. Il kaw al centro copre la scritta che pubblicizza l’incredibile paesaggio da attraversare e scoprire a bordo del treno.

Il manifesto promette milioni di acri di terra free to all: questa dicitura si trova nel timbro in alto a destra sul cartellone. Chris Pappan posiziona la raffigurazione storica del kaw al centro per mostrare che questa terra non è affatto libera per tutti: una terra che in realtà appartiene alla popolazione indigena viene venduta per molti soldi e privatizzata. Gli autoctoni pagano con i trasferimenti forzati o con la vita.  

FREE TO ALL, Chris Pappan, 2013, acrilico e foglia oro su legno, Collezione NONAM

Cartellone della Kansas Pacific Railway, Kansas Pacific Railway Company, tra 1880 e 1900, Kansas Historical Society

Foto: esponente dei kaw, forse No-pa-wy, Alexander Gardner, Washington D.C., 1867, National Museum of the American Indian, P10140

L'arte di Chris Pappan
L’artista Chris Pappan (*1971, Colorado Springs, Stati Uniti) porta nel presente le vicende dei suoi antenati osage e kaw. I suoi lavori si basano sulla ledger art, una forma artistica tradizionale dei nativi americani diffusa su carta dal 1865. Con le sue opere Pappan pone l’attenzione sul fatto che la storia di queste persone non finisce con l’internamento nelle riserve: esse sono tuttora parte della società americana. Il messaggio principale della sua arte è: «We are still here».

Individui, non stereotipi
Per i suoi lavori attuali l’artista si ispira a foto storiche. Queste immagini aiutano Pappan a calarsi nella vita delle persone immortalate. L’altra faccia della medaglia, per quanto riguarda le foto, è che spesso venivano manipolate contribuendo a diffondere e riprodurre stereotipi.

Nel suo Scouts Honor Pappan mostra un fazzoletto da collo con al centro una stampa stereotipata. A quest’immagine l’artista contrappone i ritratti di due uomini ben distinti, con lineamenti e caratteristiche differenti. Essi rappresentano solo sé stessi in quanto individui, la stampa invece riassume in maniera stereotipata e superficiale un insieme di gruppi etnici.

Scouts Honor, Chris Pappan, 2019-2020, foto: Chris Pappan

Le missioni

A partire dal XVI secolo i missionari svizzeriprimi tra tutti i gesuiti in America latina – sono attivi in quasi ogni regione del globo per condurre alla fede cristiana le popolazioni che vi abitano. Una delle prime e delle maggiori organizzazioni missionarie evangeliche in Europa è la Missione di Basilea.

Membri delle missioni di ambo i sessi fondano ospedali e scuole insieme alle autorità locali. Talvolta sono all’origine di cambiamenti sociali, ma spesso le loro relazioni con la popolazione indigena sono plasmate dalla visione paternalistica che hanno del proprio compito. Di ritorno in patria, trasmettono l’immagine di culture inferiori nei territori colonizzati.

La Missione di Basilea

Nel 1817 devoti membri dell’élite borghese di Basilea fondano la Missione di Basilea insieme ai pietisti della Germania meridionale. Dal 1828 i missionari vengono inviati nella Costa d’Oro (l’attuale Ghana) e dal 1834 nell’India meridionale, dove convertono la popolazione locale e portano una presunta «civiltà benefica». 

Dal 1901 vengono mandate nelle regioni di missione anche donne nubili, poiché così facendo la sede centrale di Basilea spera di ottenere migliori «successi nella conversione» di donne «pagane».

Figurine
Le figurine in argilla provenienti dall’India sono usate per far conoscere ai futuri membri della missione e alla comunità di Basilea l’ambiente socio-culturale nella zona di missione. Le figurine hanno lo scopo di introdurli alla struttura sociale indiana.

Figurine, India, ca. 1886 | Sammlung der Basler Mission Depositum 1981, Museum der Kulturen Basel

Diario di una missionaria
Maria Müller-Kapff (1871–1958), moglie del missionario Wilhelm Müller attivo a Calicut, nell'India britannica, descrive la situazione al tempo della Prima guerra mondiale, quando i missionari e le missionarie venivano internati dalle forze britanniche. Il marito di Maria viene messo in custodia cautelare.

Diari su alcune delle esperienze vissute in India durante il periodo bellico 1914–1915, Maria Müller-Kapff | Mission 21, Bestand der Basler Mission 

Fino al 1901, le donne non possono essere attive come missionarie. La loro unica possibilità era un matrimonio combinato con un missionario celibe. Molte donne sono pronte a trasferirsi in un Paese lontano con uno sposo sconosciuto, perché lì possono condurre una vita indipendente a fianco del marito. Solo a partire dal 1901 la Missione di Basilea inizia a reclutare donne nubili per le missioni.

E oggi?

Dalla sua fondazione, alla Missione di Basilea vengono mosse anche delle critiche, che condurranno alla cessazione del suo lavoro missionario a metà degli anni 1950. Tali critiche sono rivolte alle conversioni e alle convinzioni che motivano l’attività missionaria, basate su una presunta superiorità della cultura europea.

Lo storico indiano Mukesh Kumar vede un effetto positivo nella realizzazione di strutture sanitarie e scolastiche, che in vari luoghi facilitano la vita alle parti della popolazione che sono state convertite.

Attivismo queer
Come artista queer, Sandeep TK si occupa delle tensioni tra varnas, classi e genere, ma incorpora anche le strutture di potere globali nate dall'eredità del passato coloniale. Le persone queer, in particolare, spesso lasciano i loro villaggi d'origine per sfuggire a queste strutture, a costo di lasciarsi alle spalle parte della loro cultura e di doversi adattare a un nuovo stile di vita:

«Mi interessano anche le aspirazioni delle persone queer dei piccoli centri a trasferirsi in una città più grande per entrare a far parte della cultura urbana e della più ampia rete queer. [...] Si tratta di un'esperienza collettiva di queer provenienti da piccoli centri che va di pari passo con le difficoltà di adattamento a una nuova cultura urbana, a una lingua e a uno stile di vita in città.»

Foto: Social media dell'artista

Serie fotografica «Let me add something in my own melody»
Nel suo processo creativo, l'artista si rende conto che le persone nelle fotografie conservate negli archivi della Missione di Basilea sono spesso fotografate in modo passivo, senza autodeterminazione e dipendenti dalla persona che scatta la foto. Collega la posizione passiva delle persone nelle fotografie con le storie dei suoi antenati nell'ambiente delle strutture coloniali. Decide quindi di raccontare queste storie in modo diverso e di fotografare se stesso nel processo. Con gli autoritratti, crea le sue nuove immagini del passato, che mostrano una persona autonoma - lui stesso.

La serie di foto ritrae l'artista in pose inscenate, raccontando le storie di sua nonna, di suo padre e le lettere dell'epoca della missione di Basilea.

«La Missione di Basilea giunse in Malabar con l'obiettivo di diffondere messaggi cristiani e, nel tentativo di raggiungere il proprio scopo, istituì scuole, fabbriche di piastrelle e unità di tessitura per impiegare le persone appartenenti alle comunità più umili.»

Estratto della serie «Let me add something in my own melody», 2020 | Courtesy of Sandeep TK

«Ho indossato abito e pantaloni davanti allo specchio, quando non c'era nessuno a guardarmi, quando ho sentito la notizia che avevo ottenuto il lavoro. Non ho mai trovato il coraggio di indossarlo davanti agli amici, ma l'ho indossato una volta quando mi sono trasferita in città.»

Estratto della serie «Let me add something in my own melody», 2020 | Courtesy of Sandeep TK

Archivio della missione di Basilea
«Alcuni anni fa, grazie ad una residenza di Pro Helvetia, ho avuto l'opportunità di trascorrere un po' di tempo nel loro archivio (della missione) a Basilea. (...) La Missione di Basilea era un'operazione missionaria cristiana, un'impresa europea con tutte le sfumature imperiali dell'epoca. Ma portò occhi nuovi nella regione e riuscì a vedere la situazione delle caste intoccabili per quello che era: oppressione. E nella misura in cui furono in grado di aiutare, le persone furono grate, per quanto l'esercizio fosse spinto dal fervore della conversione religiosa e della missione civilizzatrice. In quanto appartenente alle stesse caste intoccabili da loro colpite e proveniente da una famiglia che non si è convertita, ho avuto una reazione comprensibilmente complessa alla loro eredità nella mia patria.»

Citazione da: Reading the Body: In Conversation with Sandeep TK, MALLIKA VISVANATHANFEB 26, 2024, Asap Art, alternative South Asia Photography

Foto: Social media dell'artista

Gli esperti

Dalla metà del XIX secolo, molti esperti svizzeri lavorano per le potenze coloniali. I geologi cercano il petrolio, gli ingegneri costruiscono ponti, i funzionari riscuotono le tasse. La loro competenza tecnica è messa al servizio dello sviluppo e dell’amministrazione delle colonie.

Nello Stato Libero del Congo (1885–1908), la colonia privata del re belga Leopoldo II, lavorano all’incirca 200 svizzeri. Alcuni di loro, come Daniel Bersot, si esprimono criticamente, nei loro resoconti, sulla spietata massimizzazione dei profitti e sugli eccessi di violenza. Erwin Federspiel, invece, relativizza gli eventi e giustifica il dominio coloniale. Grazie a questi resoconti, gli orrori del Congo, il lavoro forzato per l’estrazione del caucciù e i brutali atti di violenza vengono rivelati e discussi pubblicamente in Svizzera.

Critica ambivalente
Nel 1897/1898 il neocastellano Daniel Bersot (1873–1916) ricopre la carica di funzionario nello Stato Libero del Congo per tre mesi. Al suo ritorno critica il principio stesso del colonialismo e riferisce nel suo libro dei maltrattamenti con la «chicote», una frusta in pelle d’ippopotamo che è usata, ad esempio, per punire chi non soddisfaceva le quote di raccolta di caucciù. Tuttavia, nel libro sono presenti anche affermazioni razziste.

«Sotto la chicote ! Queste tre parole riassumono la storia dell'Africa centrale nell'ultimo quarto di secolo; caratterizzano il regime di oppressione, di sfruttamento spietato a cui è sottoposto un paese immenso; racchiudono tutta la vita di paura e di fatica dei n— del Congo.»

Sous la chicote, Daniel Bersot, Ginevra, 1909 | Patrick Minder, Fribourg

Tentativo di giustificazione
Per dieci anni, a partire dal 1898, Erwin Federspiel (1871–1922) fa parte della force publique, la forza militare e di polizia dello Stato Libero del Congo, che fa ricorso alla violenza estrema per reprimere la resistenza della popolazione locale. Federspiel partecipa alla riscossione delle tasse durante gli orrori del Congo. Nel suo scritto, minimizza e giustifica gli eventi.

Wie es im Congostaat zugeht (Come funzionano le cose in Congo), Erwin Federspiel, Zurigo, 1909 | Zentralbibliothek Zürich, Bro 12780

Il reclutatore
A partire dal 1901 Jean Boillot-Robert (1913†) è il console belga a Neuchâtel e, in cambio di una commissione, recluta svizzeri della regione perché diventino funzionari dello Stato Libero del Congo. A tal scopo pubblica questo libro, in cui raccoglie le «testimonianze oculari» abbellite di svizzeri rientrati in patria dalla colonia

Leopold II et le Congo – Nos fils au continent noir, Jean Boillot-Robert, Neuchâtel, 1904 | Patrick Minder, Fribourg

La scienza

Sotto l’egida coloniale, le scienziate e gli scienziati svizzeri possono condurre ricerche in botanica, medicina tropicale o linguistica. Le loro scoperte si rivelano utili per le potenze coloniali: la cartografia, le conoscenze «etnografiche» o la geologia vengono usate per sottomettere le popolazioni e sfruttare le risorse naturali.

Quando non lo si ignora, ci si appropria del sapere indigeno. Le ricercatrici e i ricercatori «scoprono» punti di riferimento e specie animali o vegetali già noti da tempo alle popolazioni colonizzate. Da tali «scoperte» le scienziate e gli scienziati svizzeri traggono fama e profitti, senza citarne l’effettiva origine.

Naturalisti
Nel periodo compreso tra il 1883 e il 1907, nelle regioni colonizzate di Ceylon (attuale Sri Lanka) e Celebes (attuale Sulawesi, in Indonesia), i due naturalisti di Basilea Fritz (1859-1942) e Paul (1856-1929) Sarasin  intraprendono spedizioni scientifiche nei territori coloniali. Equipaggiati con strumenti di misurazione e con l’aiuto di lavoratori
forzati, indagano i tracciati dei confini geologici, biogeografici e razziali-antropologici tra Asia e Australia.

Cannocchiale di Paul Sarasin, 1900 circa | Historisches Museum Basel, Erben Beatrix Staub-Sarasin

Arnold Heim | © ETH-Bibliothek Zürich

Spedizioni di ricerca
Il geologo Arnold Heim (1882–1965) conduce ricerche su tutti i continenti. Molti dei suoi viaggi sono finanziati da aziende petrolifere. Nel corso della sua carriera diventa un difensore della natura e un
sostenitore della decolonizzazione.

Spedizione a Virunga, lago Mutanda (Uganda), 1954  | ETH-Bibliothek Zürich, Bildarchiv, Hs_0494b-0090-003-AL

Quello del ricercatore temerario, che si avventura da solo «in profondità» di regni sconosciuti e «per primo» scopre o fotografa questo o quello, è un mito. Senza una cooperazione locale la ricerca coloniale non sarebbe possibile. Con il suo sapere e il suo dinamismo, la popolazione colonizzata partecipa in maniera decisiva alla storia del sapere. Non le vengono tuttavia riconosciute la scoperta e la conoscenza del proprio ambiente.

E oggi?

Dagli anni 1970 i Paesi che sono stati colonizzati richiedono la restituzione dei beni culturali e dei resti umani saccheggiati. Tuttavia, il trattamento delle collezioni museali di origine coloniale ha iniziato a suscitare dibattiti pubblici solo negli ultimi anni. Nel 2023, il Consiglio federale ha istituito una commissione indipendente per il patrimonio culturale storicamente problematico.

La decolonizzazione ha fatto il proprio ingresso nei musei: pertanto, l’indagine riguardante le circostanze di acquisizione degli oggetti e la loro restituzione è all’ordine del giorno in molti musei svizzeri.

Lo sfruttamento della natura

Nel corso del XIX secolo, il colonialismo è accompagnato da un profondo cambiamento e dalla distruzione di paesaggi, flora e fauna – con conseguenze sul clima percepibili ancora oggi.

Le colonie sono considerate fonti in apparenza inesauribili di risorse naturali. La domanda aumenta notevolmente con l’industrializzazione dell’Europa. Anche le svizzere e gli svizzeri saccheggiano le risorse naturali attraverso la coltivazione intensiva delle piantagioni
e la caccia grossa, come mostrano gli esempi di Sumatra e dell’Africa orientale.

«Inizio di una piantagione»
Le foto degli album dei «proprietari di piantagione» svizzeri mostrano aree di foresta disboscate. Estese superfici boschive subiscono le conseguenze dell’agricoltura di piantagione coloniale sull’isola di Sumatra. Il radicale mutamento della natura è accettato e considerato necessario per aumentare i profitti. 

Album, Sumatra, 1880–1900 circa | Museo nazionale svizzero

Biodiversità in pericolo
Lo sfruttamento sempre maggiore di terreni va di pari passo con la perdita di habitat. La biodiversità diminuisce drasticamente, mentre le deforestazioni hanno effetti negativi sul clima. Le colonie vengono usate come fonti apparentemente inesauribili di risorse naturali.

«Proprietario di piantagione» davanti a un campo dissodato, Sumatra, fine del XIX secolo | Museum Heiden, Nachlass Traugott Zimmermann

Widerstand
Die Plantagenwirtschaft birgt viel Konfliktpotenzial. Dieser Brief an den Zürcher Plantagenbesitzer Karl Fürchtegott Grob (1830–1893), zeugt vom lokalen Widerstand. Der Absender droht mit Brandstiftung werden seine Bedingungen nicht erfüllt.

Brandbrief mit Inschrift in einer Batak-Sprache, Sumatra 1875-80 | Völkerkundemuseum der Universität Zürich, Inv.nr. VMZ 01006, © Kathrin Leuenberger

Rückbesinnung
Heute wird in Indonesien diskutiert, ob indigenes Wissen den bedrohten Wald retten könnte. Gemeint sind die ökologischen Kulturtechniken der Batak. Dieses Buch in ihrer Ritualsprache aus Rindenbast zeugt von ihrer engen Beziehung zur Natur.

«Orakelbuch» Pustaha, Sumatra, ca. 18301848 | Rätisches Museum, Chur

E oggi?

Il colonialismo è anche un fattore chiave del cambiamento climatico. L’agricoltura di piantagione è nociva per l’ambiente e, ancora oggi, divora enormi superfici boschive. Il carbonio immagazzinato nelle foreste è rilasciato nell’atmosfera, contribuendo notevolmente all’effetto serra.

Le ex colonie pagano il prezzo di questo sfruttamento. Sono colpite in misura molto maggiore dagli effetti del cambiamento climatico, come ad esempio dall’innalzamento del livello dei mari. Per questo attiviste, attivisti e organizzazioni internazionali rivendicano una «giustizia climatica».

Continuità
L’artista indonesiano Maryanto si occupa di sfruttamento naturale e di strutture postcoloniali. Con questi frutti della palma da olio tematizza l’espansione delle piantagioni a Borneo, l’espulsione delle comunità indigene e la distruzione delle foreste.

Maryanto, Fresh Fruit Bunch, Yogyakarta, 2023, acrilico su tela | Yeo Workshop, Singapore

Die Reise auf der Suche nach Palmöl
Maryanto forscht für seine Kunst in seiner Heimat, Indonesien. In Videoaufnahmen beschreibt der Künstler seine Ankunft auf der Insel Kalimantan:

«Ursprünglich hatte ich mir Kalimantan als eine naturschöne Gegend mit dichten Wäldern und grossen Bäumen vorgestellt, aber die Realität sah anders aus. Die Reise war gesäumt von grossen Lastwagen, die Kohle und Palmöl transportierten.»

Maryanto, Perjalanan Kelapa Sawit (Die Reise auf der Suche nach Palmöl), 2023 | © Maryanto

Palmöl im täglichen Leben
In diesem Werk wird die Ölpalme von einer Flut von bekannten Logos grosser Unternehmen und Haushaltsmarken umgeben: Von Oreo bis Nestlé enthalten diese Produkte alle Palmöl, das möglicherweise von Plantagen in Indonesien stammt. Maryanto fordert auf, anzuerkennen, wie allgegenwärtig Palmöl geworden ist, vielleicht sogar unwissentlich. Angelehnt an ein improvisiertes Plakat von aktivistischen Personen und Demonstrierenden steht Palm oil in daily life für die Leidenschaft, die indigenen Gemeinschaften aufbringen, um ihre Wälder zu schützen.

Maryanto, Palm oil in daily life, 2023 | © Maryanto

Il razzismo

Fino alla fine del XVII secolo la presunta superiorità della cultura cristiana è ritenuta l’espressione di un «ordine divino». Questa idea è però messa in discussione con l’Illuminismo.

A cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, si consolidano in Europa le «teorie razziali» che motivano la presunta superiorità della «razza bianca» non più con la religione, bensì con fattori «biologici»: questi includono caratteristiche fisiche come la struttura dei capelli, il colore degli occhi oppure la forma del cranio. La «teoria razziale» che ne deriva contribuisce in modo essenziale a legittimare il dominio imperialista e lo sfruttamento delle «razze straniere» nelle colonie.

Sebbene sia stata sporadicamente criticata come pseudoscientifica in questo periodo, la ricerca sulle razze umane si afferma come un importante ramo di ricerca fino alla Seconda guerra mondiale (1939–1945). Oggi l’idea della «razza umana» è stata ufficialmente confutata, grazie anche alla ricerca genetica.

Il razzismo e la scienza

Intorno al 1900, le università di Zurigo e Ginevra si convertono in centri internazionali di «antropologia razziale». I «ricercatori in morfologia razziale» misurano il cranio di persone provenienti da tutto il mondo per suddividerle in «razze». A partire dagli anni 1920 è in particolare il metodo della «scuola zurighese» a diventare lo standard riconosciuto a livello internazionale.

Questi studi servono anche a proteggere la «razza bianca» che si presume minacciata. In Svizzera la «teoria razziale» e l’eugenetica trovano ancora un impiego sporadico fino agli anni 1960.

Misurazione
L’Istituto di antropologia di Zurigo diventa tristemente famoso per i suoi metodi di misurazione – ad esempio la misurazione dei crani. I metodi e gli strumenti di misurazione vengono sviluppati e testati nelle colonie. 

Compasso di misurazione, Siber Hegner & Co. AG, Zurigo, 1960 circa | Institut für Medizingeschichte, Universität Bern

Schweizer Rassenforscher

Professor in Harvard mit grossem Einfluss

Der Zoologe, Paläontolge und Gletscherforscher Louis Agassiz (1807–1873) wandert 1846 in die USA aus und wird einer der Hauptgegner von Darwins Evolutionstheorie. In seiner Theorie der Hierarchie der «Rassen» teilt er die Menschheit mit einer klaren Rangordnung ein, wobei er die «weisse Rasse» der «schwarzen Rasse» als überlegen ansieht. Agassiz lehnt die «Rassenmischung» ab – «Mischlinge» definiert er als minderwertig und will den amerikanischen Staat zur räumlichen Rassentrennung und zur Beschleunigung des Verschwindens der «Mischlinge» verpflichten.

Die Forderung nach Umbenennung des Agassizhorns lehnt der Bundesrat 2007 sowie die drei Gemeinden Grindelwald, Guttannen und Fieschertal 2010 sowie 2020 ab. In Neuenburg hingegen wird der Platz «Espace Louis-Agassiz» 2019 in «Espace Tilo-Frey» umbenannt.

Carte de Visite von Louis Agassiz, William Shaw Warren, um 1865 via Wikimedia Commons

Evolutionstheorie als Grundstein

Als entschiedener Anhänger des Polygenismus, der Lehre der verschiedenen Ursprünge von Menschen verschiedener Rassen, vertritt Carl Vogt (1817–1895) den Standpunkt, dass Menschen sich nicht aus einen, sondern aus mehreren menschenähnlichen Affen entwickelt hätten. Daraus schliesst er, dass Schwarze Menschen, besonders Schwarze Frauen, evolutiontionär am wenigsten entwickelt seien. Besonders an Gehirn- und Schädelform will Vogt erkennen, dass die grössten Unterschiede nicht zwischen Schwarzen und weissen Menschen sind, sondern zwischen den Geschlechtern innerhalb einer «Rasse». 1839-1844 assistiert er Louis Agassiz in Neuenburg und ist 1873 Mitgründer der Universität Genf.

Carl Vogt, K.K. Hofphotograph, Wien, ca. 1860 | The New York Public Library

Strikte Trennung der «Rassen»

Der Arzt Auguste Forel (1848–1931) vertritt Vorstellungen von Eugenik und ist für die Bewahrung und Förderung der Homogenität der weissen Rasse. Seine eugenischen und rassistischen Ideen fliessen in den schweizerischen naturwissenschaftlichen Diskurs ein, der den kolonialen Superioritätsanspruch unterfüttert.

Auguste Forel, aus: Clark University, 1889-1899, decennial celebration, Worcester, Mass, 1899 | Internet Archive

Naturgegebene Überlegenheit

Der Maschineningenieur Julius Klaus (1849–1920) ist überzeugter Darwinist und glaubt an genetisch hochwertige und minderwertige «Menschenrassen». Wobei die weisse Rasse naturgegeben allen anderen gegenüber überlegen sei. Klaus rechtfertigt so den Kolonialismus. Mithilfe der Fördergelder von Klaus über rund 1'275'000 Fr. wird die Julius-Klaus-Stiftung (1922) gegründet, die heute als «Katalysator» der Genetik und Rassenforschung gilt.

Julius Klaus, Reglement der Julius Klaus-Stiftung, Zürich, 1925 | Wellcome Collection

Hierarchie der «Rassen»

Der Zoologe Emile Yung (1854–1918) formuliert zwischen 1880 und 1910 zahlreiche Theorien zur vergleichenden Anatomie zwischen den verschiedenen menschlichen «Rassen» und Affen. Ähnlich wie Carl Vogts Theorien beschränkt er sich bei der Hierarchisierung nicht auf die «Rasse», sondern bezieht sich auch auf Geschlecht und Klasse. Yung praktiziert auch Messungen an den Körpern Schwarzer Menschen, die an der Schweizer Landesausstellung von 1896 im «Village Noir» ausgestellt sind.

Emile Yung, Jean Lacroix, Genf | Bibliothèque de Genève

 «Rassenhygiene» und Ethik

Der Psychiater Paul Eugen Bleuler (1858–1939) bezieht sich, wie die meisten Universitätspsychiater seiner Zeit, in seiner Forschung auf die «Degenerationslehre», der zufolge psychische Erkrankungen als eine Art «Entartung» zu sehen seien. Dabei verschränkt sich die «Degenerationslehre» mit eugenischen und später «rassenhygienischen» Ideen. In Bleulers Aufsatz Die naturwissenschaftlichen Grundlagen der Ethik (1936) bekräftigt er die Notwendigkeit einer strikten Rassenhygiene als Grundlange einer konsistenten Gesellschaftsordnung.

Paul Eugen Bleuler, ca. 1910 | ETH-Bibliothek Zürich, Bildarchiv, Portr_09914

Politisierung der «Rassenhygiene»

Einst Schüler von Auguste Forel, gründet Ernst Rüdin (1874–1952) die vom Deutschen Alfred Ploetz herausgegebene Zeitschrift «Archiv für Rassen- und Gesellschaftsbiologie» mit. In diesem «rassenhygienischen» Kampfblatt schreibt Rüdin über die Bildungsleistung von Schwarzen Amerikanern als «eine nicht zu unterschätzende Gefahr für die weisse Rasse» und warnt vor «einer Vermischung mit weissem Blut». 1905 gehörte er zu den Gründungsmitgliedern der von Alfred Ploetz präsidierten «Gesellschaft für Rassenhygiene».

Ernst Rüdin, aus: Erblehre und Rassenhygiene im völkischen Staat, Ernst Rüdin, München, 1934 | Zentralbibliohthek Zürich, JKS A 1292

Pseudo-wissenschaftlicher Antisemitismus

George Montandon (1879–1944) wird europaweit berühmt, nachdem er im Oktober 1940, nach der Kapitulation von Frankreich, im Werk Comment reconnaître le Juif?  antisemitische «Rassenthesen» formuliert. Von 1941 bis 1942 werden seine «Rassenthesen» im Deutschen Reich in die Praxis umgesetzt. In Frankreich arbeitet Montandon als «Rassenexperte in Judenfragen» für die Nazis.

George Montandon, Neuchâtel, 1913 | Zentralbibliothek Zürich, BR 435

Für den Erhalt der «weissen Rasse»

Der Anthropologe Otto Schlaginhaufen (1879–1973) gehört 1921 zu den Mitbegründern der Julius-Klaus-Stiftung für Vererbungsforschung, Sozialanthropologie und Rassenhygiene, deren Ziel es ist, die «praktischen Reformen zur Verbesserung der weissen Rasse» vorzubereiten und durchzuführen. Mit dem Ziel, die Grundlagen für eine Rassentypologie der Schweizer Bevölkerung zu schaffen, vermisst Schlaginhaufen Schädel von asiatischen Menschen und ist Leiter des ersten Schweizerischen eugenischen Grossprojekts, bei dem über 35'000 Wehrpflichtige der Jahre 1927 bis 1932 anthropologisch vermessen werden.

Otto Schlaginhaufen, Franz Schmelhaus, Zürich, 1914 | Universitätsarchiv Zürich, UAZ AB.1.0873

Neue Autorität für die Schweizer «Rassenforschung»

Marc-Rodolphe Sauter (1914–1983) ist ein Schüler des Genfer Anthropologen Eugène Pittard (1867–1962) und hat nach dessen Emeritierung den Lehrstuhl für Anthropologie in Genf inne. Sauter sorgt dafür, dass die «Rassenforschung» mehrere Jahrzehnte auf der Agenda der Genfer Anthropologie verbleibt. In seiner Forschung ist er bestrebt, die europäische Bevölkerung in verschiedene «Rassen» einzuteilen und zu klassifizieren, mit dem Ziel, der schweizerischen «Rassenforschung» nach dem Zweiten Weltkrieg neue Autorität zu verleihen.

Marc Roldolphe Sauter, vor 1952 | Bibliothèque de Genève

Il razzismo strutturale oggi

Il razzismo strutturale, che parte da norme e istituzioni, consiste in una posizione svantaggiata a livello di istruzione, assistenza sanitaria, accesso all’alloggio e all’occupazione, come pure nel cosiddetto «profiling razziale», ossia i controlli di polizia basati sul colore della pelle.

Nel 2022, lo studio di riferimento del Servizio per la lotta al razzismo in Svizzera, che si basa sulla raccolta di testimonianze, mostra che le persone che provengono dall’Europa sudorientale, nere e appartenenti a minoranze religiose sono esposte a una discriminazione strutturale.

Resistenza ed empowerment

A partire dagli anni 1970 diverse associazioni e singole persone si battono contro il razzismo e la discriminazione in Svizzera. Nel 1995 la norma penale contro il razzismo viene introdotta nel Codice penale. La legge protegge le persone discriminate, minacciate o sminuite per il colore della loro pelle, la loro etnia o la loro religione.

Oltre a numerose reti e organizzazioni autonome, in quasi tutti i cantoni esiste un servizio o un centro di contatto pubblici per la lotta al razzismo e alla discriminazione.

Robin Bervini, *1989, Tessin

Es hat lange gedauert, bis ich meine Hautfarbe und mein Schwarzes Erbe akzeptiert habe. Ich hoffe, dass ich durch meine Arbeit und meinen Weg der Selbstakzeptanz andere Menschen inspirieren und mit ihnen in Kontakt treten kann - unabhängig von ihrer Kultur, ihrem Geschlecht oder ihrer Klasse.

Robin Bervini ist ein Schweizer Fotograf und bildender Künstler. Seine Arbeit konzentriert sich zum einen auf den Menschen, zum anderen auf das technische Experimentieren, um neue Ausdrucksformen zu finden. In seinem Studium konzentrierte sich Bervini zunächst auf Porträts und den Körper, den er mit traditionellem und Sofortbildfilm erkundete.  Aktuell erforscht Bervini neue Techniken zur Darstellung des Individuums durch Photogrammetrie, 3D-Modellierung und virtueller Realität und fokussiert sich dabei auf ethnische Identität, Geschlecht und soziale Zugehörigkeit. Robin Bervini ist derzeit als Creative Producer bei Stojan.com tätig.

Bervinis Arbeiten wurden bereits in Tokio, Paris, Zürich, Genf, Lugano und Locarno ausgestellt.

Marion Hermann, *1975, Zürich/Bern

Ich versuche Menschen, die nicht die gleichen Privilegien haben wie ich, selbst in die Sichtbarkeit zu bringen.

Marion Hermann ist mitinhabende und geschäftsführende Person des Zwischennutzungsprojekts «Das Dazw/schen» in Zürich.

«Das Dazw/schen» versucht sicherzustellen, dass auch Personen, die von strukturellem Rassismus betroffen sind, Zugang zu Mietobjekten haben und  Raum erhalten. Ich versuche den administrativen Weg so gering wie möglich zu halten und nehme mir gerne Zeit, falls Unterstützung erwünscht ist. So finden auch sehr viele NGO's den Weg ins «Das Dazw/schen».

Hermann bezeichnet sich als «Aktivist*in». So ist Marion auch immer wieder an Veranstaltungen und Demonstrationen anzutreffen bei denen es um Menschenrechte geht

Mardoché Kabengele, *1995, Bern

Um einen Diskurs über Rassismus führen zu können, ist es wichtig, an die Geschichte des Rassismus und an den Kampf der Zivilgesellschaft gegen Rassismus zu erinnern.

Mardoché Kabengele ist Mitglied des Berner Rassismus-Stammtisch, bei dem er sich für die Vernetzung von Menschen mit unterschiedlichen Lebensrealitäten und gegen strukturelle Diskriminierung engagiert. Er ist ausserdem in verschiedenen Kollektiven aktiv, wie dem Community-Center Livingroom oder dem Diskussionsformat «We talk – Schweiz ungefiltert». Seit 2020 ist er als administrativer Mitarbeiter der Geschäftsstelle des Institut Neue Schweiz tätig. Der 29-jährige stellt sich aktuell die Fragen über aktivistische Utopien und sich setzt sich ein für einen «unaufgeregten Diskurs» über (Post-)Migration ein. Denn für Kabengele ist Migration heute kein Ausnahmezustand, sondern gehört zum Alltag der Schweizer Gesellschaft.

Sandra Knecht, *1968, Basel/Buus

Heimat muss immer wieder verhandelt werden – Und genau das mache ich in meiner Arbeit.

Aufgewachsen ist Sandra Knecht im Zürcher Oberland. Bevor sie sich entschied, hauptsächlich als Künstlerin zu leben und zu arbeiten, war sie während 25 Jahren als Sozialpädagogin tätig. In ihren künstlerischen Arbeiten beschäftigt sie sich vor allem mit den Themen Identität und Heimat oder «Heimatidentität», wie Knecht es selbst nennt. Für ihr Werk My Land Is Your Land, für das sie mit dem Schweizer Kunstpreis 2022 ausgezeichnet wurde, untersucht Sandra Knecht das Konzept «Heimat», das für sie stark von Inklusion und Solidarität geprägt ist. Heimat als unbekannter Ort (Home is a Foreign Place), beschäftigt Knecht nun seit mehreren Jahren, wobei sie das Leben auf dem Land als Ausgangspunkt nimmt. Sandra Knecht eröffnete im November 2015 die «Chnächt» Scheune im Basler Hafenareal. Damit schuf sie einen «Heimatort» inmitten eines Unortes, an dem alle Menschen willkommen sind.

Zur künstlerischen Praxis von Sandra Knecht gehören auch  Kochen, Filme und Performance.

Shyaka Kagame, *1983, Genf

Ich würde meine Arbeit nicht unbedingt als «aktivistisch» bezeichnen. Am ehesten würde ich sagen, dass ich den Ansatz des Hip-Hop verfolge: zu erforschen, was man selbst ist und was unsere Mitmenschen erleben.

Shyaka Kagame wurde 1983 als Sohn ruandischer Eltern in Genf geboren.

Nach seinem Studium der Politikwissenschaften begann er, Dokumentarfilme zu drehen, von denen der erste, Bounty (JMH & FILO Films/RTS), 2017 in den Kinos lief. Der Film befasst sich mit den Identitätsfragen der ersten Afro-Schweizer Generation und konzentriert sich auf den Alltag von fünf Personen mit unterschiedlichen Profilen.

2018 drehte er für das TV-Nachrichtenmagazin Temps Présent (RTS) eine Reportage mit dem Titel Policiers Vaudois, une violente série noire, in der es um die Zunahme der Todesfälle von Schwarzen im Zusammenhang mit Polizeieinsätzen im Kanton Waadt ging.

Walesca Frank, *1991, Luzern

Unsere individuellen Unterschiede sind das, was uns als Gesellschaft stark macht.

Walesca Frank versteht sich als aktivistische Kommunikationsdesignerin und hat 2022 mit dem «Black Stammtisch» in Luzern ein Projekt zur Bekämpfung von Rassismus und Diskriminierung ins Leben gerufen. Ihr Ziel ist es, das Bewusstsein für kulturelle Vielfalt zu fördern und die visuelle Repräsentation von Schwarzen Menschen in den Mittelpunkt zu stellen. Dabei geht es ihr nicht nur um die Darstellung in den Medien, sondern auch um die physische Realität sowie um die Vielschichtigkeit von Schwarz sein und Schweizer:in sein. Seit Anfang 2024 gibt es auch einen «Black Stammtisch» in Zürich.

Während ihres Masterstudiums hat sie sich mit der Frage beschäftigt, wie über Rassismus gesprochen wird, und auf dieser Grundlage verschiedene Gesprächsformate entwickelt, darunter auch den «Black Stammtisch». In diesem geschützten Raum treffen Menschen zusammen, um nicht nur ihre Erfahrungen mit Rassismus zu teilen, sondern auch gemeinsam über «Black Joy» und mentale Gesundheit zu sprechen.

Continuità coloniali

Ribaltamento di un monumento | © Museo nazionale svizzero

Ribaltamento di un monumento
Nel 2021 l’artista ginevrino Mathias C. Pfund colloca una scultura
di David de Pury (1709–1786), coinvolto nel commercio triangolare e quindi anche nella tratta delle persone ridotte in schiavitù, in scala ridotta e a testa in giù accanto alla statua originale del 1855.

Mathias C. Pfund, Great in the concrete, ex. 2/5, 2022, bronzoMuseo nazionale svizzero

Per ulteriori informazioni: Whitey on the Moon & La tête dans le socle

Agassiz kopfüber
1906 bebt in San Francisco die Erde so stark, dass die Statue von Louis Agassiz von der Fassade der Stanford University fällt. Der Schweizer Natur- und Gletscherforscher, der in den USA aber auch rassistische Theorien entwickelte, landet kopfüber und bricht in den Boden ein. Dieses Ereignis wird Jahre später als symbolische Geste der Natur interpretiert und das Bild des versenkten Agassiz in der Kampagne Demounting Agassiz verwendet.

Vom Erdbeben gekippte Skulptur von Louis Agassiz, Antonio Frilli, Stanford University, San Francisco, 1906 | Zeitungsartikel The Fall of Agassiz at San Francisco, The Sphere, 1906

Denkmal von David De Pury
Der Gemeinderat von Neuchâtel lanciert 2022 einen künstlerischen Wettbewerb, dessen Mitpreisträger Mathias C. Pund ist. Er nimmt das Bild der gestürzten Agassiz-Skulptur zum Anlass, das Denkmal des Bankiers und Sklavenhändler David de Pury (1709–1786) zu hinterfragen. Mit seinem Werk möchte der Künstler nicht unbedingt eine Verbindung zwischen diesen beiden Biografien herstellen, sondern auf die Art der Repräsentation «grosser Männer» im öffentlichen Raum hinweisen.

Seine umgekehrte, kleine Version der Skulptur bezeichnet der Künstler als Fussnote zur Würdigung De Purys im öffentlichen Raum.

Mathias C. Pfund, Great in the concrete, 2022, Bronze

L’installazione video

Che cosa significa l’eredità coloniale per la Svizzera di oggi? L’installazione video inscena, sotto forma di podio dialogico, i dibattiti sociali attuali e le diverse posizioni e prospettive. I temi dibattuti sono:

  •  Tracce coloniali e punti ciechi
  •  Eredità coloniale e cultura della memoria
  •  Responsabilità storica e riparazione

Prendono la parola diverse persone che rappresentano i rispettivi ambiti tematici.

© Museo nazionale svizzero

Schulunterlagen zur Ausstellung

240911_kolonial_su_download.pdf

Video-Führung für Schulklassen

Blogartikel

Mehr Infos zur Ausstellung finden Sie hier.